Multatuli: Professione di fede. Il debutto del 1859

Lo scrittore olandese Eduard Douwes Dekker pubblica nel mese di novembre 1859 con lo pseudonimo Multatuli: Professione di fede. È la prima volta che l’autore si serve di questo nom de plume e non lo abbandonerà più. Segue la mia traduzione del debutto, poi una breve nota biografica sull’Autore.

Professione di fede

Un padre si sarebbe allontanato brevemente da casa. Per mettere alla prova la sagacia dei suoi figli, diede loro da indovinare cosa avrebbe fatto durante la sua assenza.

Uno dei bambini, che indossava un farsetto azzurro, disse:

–  Lo so già: papà è andato dal sarto a farsi fare un farsetto azzurro.

Il secondo bambino, che amava mangiare i dolci, si arrabbiò con il Farsetto Azzurro, che era così stupido da credere che papà indossasse un farsetto azzurro.

– Lo so bene, disse. Papà mangia una torta dolce con lo sciroppo.

Il terzo bambino, che era seduto in un angolo buio, pizzicò la coda di un gatto e rimproverò Mangiabiscotti, che era così stupido da pensare che il padre mangiasse dei biscotti, proprio come lui.

– Lo so bene io, disse. Papà sta macellando un bue.

Il quarto figlio, dall’indole molto polemica, strappò i capelli a Pizzicagatti perché era stato così sciocco da credere che il padre stesse macellando un bue.

– Lo so disse, lo so! Papà è andato dal vicino Pieterse, per dargliele di santa ragione.

L’ultimo figlio, curando un tordo che si era rotta una zampa, era così tanto occupato da non aver pensato all’indovinello.

Quando il padre tornò a casa, si scoprì che né Farsetto Azzurro, né Mangiabiscotti, né Pizzicagatti, e neanche Tiracapelli avevano visto giusto. Però l’ultimo bambino non aveva ancora parlato.

– Non lo so proprio, disse Bambinotordo. Ah, vedete, lui si alza e ci guarda con gratitudine…

– Giusto… esclamò il padre. È quello che ha fatto la vedova malata che stavo visitando! Nessuno aveva colta nel segno. Ma Bambinotordo era vicino alla verità, senza aver mai partecipato all’indovinello.

Breve nota biografica

Dekker, Eduard (Douwes). Celebre letterato olandese con il pseudonimo Multatuli. Nacque ad Amsterdam il 2 marzo 1820, figlio di Engel Douwes Dekker (1787-1850) e Sytske Eeltjes Klein (1786?-1846). Nell’autunno 1838 si trasferì nelle Indie olandesi per lavorare come inpiegato presso la Corte dei conti di Batavia. Diventò controllore a Natal, sulla costa ovest di Sumatra. Il 10 aprile 1846 sposò Everdina Huberta, baronesse di Wijnbergen, (Anversa 1819- Venezia 1874). In seguito Dekker diventò impiegato di concetto a Poerworedjo, secretario del ministro residente Menado, vice ministro residente di Amboina, e 1856 si licienziò come ministro residente di Lebak.

Pubblicò Max Havelaar nel maggio 1860 e sette raccolte di Idee tra il 1862 e 1877. Si risposò il 1 aprile 1875 a Rotterdam con Maria Frederika Cornelia Hamminck Schepel (1839-1930), visse tra l’altro a Wiesbaden e a Nieder-Ingelheim, dove morì il 19 febbraio 1887. Ebbe due figli dal primo matrimonio: Pieter Jan Constant Eduard (Amsterdam 1 gennaio 1854 – Nizza 4 marzo 1930) e Elisabeth Agnes Everdina (Surabaya 1 giugno 1857 – Capri 11 giugno 1933).

Multatuli: Professione di fede
Hotel Multatuli a Ingelheim, cttà in Germania, già casa dello scrittore dal 1880 e dove morì nel 1887.

Note a Multatuli: Professione di fede. Il debutto di 1860

    • Di Multatuli sono disponibile in italiano
      • Il suo capolavoro Max Havelaar nelle edizioni di Iperborea. È la ristampa dell’edizione UTET uscita nel 1965. Traduzione dall’olandese di Pietro Bernardini Marzolla.
      • La breve raccolta Pensieri. Testo originale a fronte, a cura di Giorgio Faggin, Mobydick, Faenza, 1997. (È fuori catalogo.)
    • Wikipedia: cliccare qui e per una voce nell’Enciclopedia Treccani del 1934 qui.

 

Fenomenologia della Pin-Up Girl di Willem Frederik Hermans

Il saggio «La fenomenologia della Pin-Up Girl», di Willem Frederik Hermans (1921-1995), fu pubblicato per la prima volta nel 1950.

La fenomenologia della pin-up girl

I

La pin-up girI è un fenomeno bidimensionale, come più o meno il nome stesso indica. Questo nome, del resto” ci esorta ad attaccare al muro la pin-up.

Tuttavia, la pin-up non è affatto un’immagine considerata capace di incitare a tirar fuori le puntine da disegno e a salire su una sedia. Bene, essa è una fanciulla affascinante, vestita in modo che, come si usa dire, «lascia poco all’immaginazione» (la donna enigma, no?).

Eppure esistono anche foto e disegni di altri soggetti che affascinano. Con eguale buon diritto si potrebbe parlare di orchidee pin-up, di lattanti pin-up, di tigri pin-up, di mulini pin-up e di campanili pin-up. Ma la cosa non è affatto di uso corrente, quantunque nella pubblicità i citati oggetti giuochino in parte un ruolo analogo a quello della pin-up.

Si vede la pin-up girl sulla copertina delle riviste; essa riempie interi settimanali. Viene anche venduta in cartoline. Vi guarda dagli imballaggi e dai manifesti. È la regina della réclame. Quando, al fine di propagandare un articolo, nessun’altra raccomandazione o descrizione dello stesso viene più considerata utile, il fabbricante basa tutte le sue aspettative sulla semplice presenza di una giovane donna dall’ampia scollatura per poter indurre il pubblico a comperare.

Spesso, la pin-up girl adorna annunci riguardanti merci che in qualche modo ancora possono essere posti in relazione con la femminilità. Se si tratta di prodotti di bellezza, biancheria intima o calze di nylon, è in un certo senso ovvio che essa si mostri. Un po’ meno a proposito invece essa appare con le aranciate, le sigarette o l’olio per motori. Essa vi sorride a grandezza maggiore del naturale. Fa chiaramente vedere di essere di buon umore perché beve l’aranciata AB, oppure perché fuma la sigaretta CD; non lascia più sussistere alcun dubbio sul fatto di trovare assolutamente delizioso farsi portare a casa in un’automobile lubrificata con olio EF.

Immaginatevi ora di volervi accattivare le simpatie di una conoscente femminile. Che cosa di più logico che voi le offriate l’aranciata o la sigaretta che hanno già fatto sorridere prima la pin-up? E può darsi anche che sia una pensata illogica, ma pure può davvero capitare che un uomo piuttosto passionale riempie la coppa del motore della sua auto con l’olio EF, sperando così, chissà per quali magie, di riuscire a indurre molte fanciulle a farsi accompagnare a casa dalla sua macchina lubrificata con olio EF!

Ma quando (come accade in America) la pin-up girl compare sui calendari dei commercianti di attrezzi agricoli o di puntelli per miniere, si ha piuttosto l’impressione che quel mercante abbia voluto preparare una bella sorpresa al suo cliente e che perciò gli abbia offerto una piacevole stampa. È idea accettata da tutti che la sensibilità per il sex-appeal sia più diffusa della curiosità verso gli abitanti della foresta vergine e quindi è ovvio che lo specialista pubblicitario pensi, nella maggior parte dei casi, di toccarvi più profondamente con una pin-up gìrl, che non con una pin-up tigre.

Del resto, la pin-up girl ha in comune con la tigre una importante caratteristica: la «girl», ovvero la ragazza che è servita da modello per il manifesto, non è unica.

Chi ritaglia da un giornale la foto di una cantante famosa o di una famosa atleta conserva un’immagine che rappresenta la signora Y o la signora Z. Nella nostra coscienza, queste signore sono legate alle loro prestazioni. Tali foto ampliano la mia conoscenza di persone per le quali nutro interesse. Le foto di cantanti o di atlete sono dei documenti.

Del tutto fuor di strada ci porterebbe l’attribuire all’immagine di una bella ragazza in costume succinto la qualità di documento. Soltanto le agenzie di pubblicità sanno come si chiama la ragazza che, affissa al muro di questa casa, in questa strada, dimostra allegramente quanto sia buona la sigaretta AB oppure beve con una cannuccia da una bottiglietta di limonata CD. All’infuori di qualche solitario maniaco che si propone di seriverle una lettera, nessuno ha la curiosità di sapere chi sia e dove abiti.

Nei rotocalchi che pensano soltanto a pubblicare immagini di « pinup », viene spesso indicato il nome della modella, viene rivelato il suo compenso, quanti divorzi abbia dietro alle spalle, quante pellicce possegga e in quanti bar abbia investito i suoi dollari. A me questo non piace. Informazioni di questo genere sono del tutto superflue ed in contrasto con il carattere della pin-up. Tali chiarimenti turbano il fenomeno della pin-up girI. La loro unica funzione, a mio avviso, sta nel fatto che vanno incontro a determinate pretese, che formano una specie di «fare-come-se» sia da parte dell’editore che del pubblico. L’editore fa come se offrisse una documentazione fotografica, il pubblico dal canto suo non ha la sensazione di osservare una semplice raccolta di immagini. Esso può nascondere i suoi veri motivi in questo ragionamento: guarda com’è interessante, sono così le fanciulle che in America sono delle vere personalità.

L’assoluta pin-up è, in quanto tale, anonima e la maggior parte di quelle che incontriamo nella stampa quotidiana lo sono anche effettivamente.

Un’altra specie di confusione nasce poi dal fatto che anche molte attrici cinematografiche posano da pin-up. Riesce difficile stabilire se la foto di una stella del cinema sia il ritratto di una personalità della vita artistica, oppure semplicemente l’immagine di una donna che risponde ai requisiti di leggiadria voluti dalla moda dominante. Ma per la maggior parte delle pin-up girls, la vera essenza non viene affatto mascherata, almeno non in questa maniera.

II

È strano che talora nascano persecuzioni contro quadri o determinati romanzi, giacché è ben raro, o addirittura non è mai successo, che si proibiscano delle réclames in cui si esalta il sex-appeal. Si parla qui di quadri di notevole valore artistico o commerciale e di libri scritti da autori, delle cui serie intenzioni non c’è motivo di dubitare. Altrettanto strano è che persone per bene, che non sopporterebbero mai appese alle loro pareti Maja o Olympia, facciano entrare nei propri salotti senza alcuna vergogna i giornaletti con le pin-up. A me sembra che con ciò non sia affatto necessario offrire alcun’altra dimostrazione del fatto che la pin-up non sia per niente opera d’arte.

Passeggiare nudi è proibito e non si possono pubblicare nei giornali foto di nudi -eppure si possono pubblicare le pin-up. La pin-up girI è sempre vestita con abiti che non potrebbero circolare su molte spiagge Olandesi. Ma questa non è una ragione per non appenderla alle pareti dei nostri chioschi. Queste constatazioni ci portano, con la frivolezza richiesta dall’argomento, a concludere che la pin-up, oltre a non essere « arte», non è neppure «natura». Essa si trova, evidentemente, in una sfera per la quale i moralisti non provano alcun interesse. Essa fa parte del quotidiano, ha saputo penetrarvi così a fondo, che la si considera quasi sempre come un fenomeno che adesso è appunto così.

Allontanare la pin-up dalla società è decisamente più difficile che proibire un romanzo o chiudere una mostra: ad essa sono collegati interessi commerciali molto grossi. Eppure, un passo del genere dovrebbe essere ritenuto possibile, mentre invece quasi mai lo si tenta, perché? Come abbiamo già visto, la pin-up girI non può venir considerata né documento, né opera d’arte; l’unico fine che ci si propone fabbricando queste immagini è di creare un’atmosfera erotica. Pur tuttavia esse sono protette in molte maniere contro l’avversione per la pornografia. In primo luogo formalmente: i più importanti attributi del sesso sono coperti, anche se invece che di copertura si potrebbe benissimo parlare di sottolineatura dei punti cardinali. Di nessuna donna l’abbigliamento è ridotto, in maniera così incisiva, a cosa fatta per attirare lo sguardo. Eppure anche il suo più ridotto bikini pretende (ed evidentemente con successo) di essere proprio l’indumento che la decenza esige.

Del resto, la pin-up girI può permettersi quasi tutto quello che una fantasia lasciva può immaginarsi. Si lascia sorprendere dall’obbiettivo quando a malapena ha posto le fondamenta della sua toeletta. Si allaccia una calza alla giarrettiera; sta invitante, a gambe aperte; si erge con le mani dietro al capo; se ne sta sdraiata sul dorso con un ginocchio piegato; cavalca un cavallo senza sella o sta a cavalcioni di un tronco d’albero.

Nonostante tutto ciò, la vera pin-up non è mai realmente oscena. La pin-up girI è un qualcosa di lievemente diverso e la differenza è in grande misura determinata dall’espressione del suo viso. Ve ne sono di quelle che vi guardano con aria languida o sensuale, certo. Ma proprio in questo languore c’è una tale durezza, addirittura uno sprezzo che, a parer mio, soltanto dei masochisti smaliziati potrebbero prenderla sul serio. La vera pin-up non è lasciva, è un’uccelliera di gaiezza. Essa ride. Le modelle delle vere foto di nudi, generalmente, non ridono. Si direbbe che non possano. E la pin-up, in effetti, è « coperta ».

Essa osa tutto, essa ride. Ride con le sopracciglia alzate e con le ciglia irte come spine, perché ispessite dal rimmel. È proprio un’allegra risata, solo che… non è un riso invitante. È un ridere che sembra soltanto dire: Adesso mi lascio guardare così. .. non è divertente? .. ma tu non t’immaginare che questo significhi qualcos’altro!

Soltanto a persone che sono sempre state refrattarie alla realtà delle cose, ella può far sperare in un tète-à-tète in una stanza dalla luce discreta.

Ad altri invece suggerisce lo smalto di un frullatore elettrico o di un frigorifero, la porcellana di vasche da bagno, la calda opacità di prodotti di bachelite, la cromatura di sedie di acciaio, lo splendore di nuovi tessuti, l’odore della seta e della lana, del legno fresco, di gomma per rivestire pavimenti: non la buccia di una pesca, bensì la peau de pèche? In poche parole: essa fa pensare a tutto ciò che è inerte, inusato e immacolato.

La pin-up girI ha da spartire con il vero erotismo tanto poco quanto un film di Hollywood ha a che fare con la vita vera, come il detective del libro giallo ha a che fare con il funzionario di polizia, come una storia western con il sadismo. ,La pin-up è separata dalla prostituta ideale da uno schermo di cellophane. È profumata, anche se forse è più esatto dire che diffonde odor di sapone. A lei soprattutto manca quella debole mescolanza di odori naturali che un profumo messo sulla pelle di una donna mette in risalto. I suoi seni hanno la linea di moda, ma non hanno peso alcuno.

Il disegnatore di Esquire ha stilizzato la sua anatomia. Tutto è stato fatto per togliere ai suoi muscoli ogni caratteristica di organi del movimento; può sussistere soltanto la funzione passiva del palpeggio e quella dello sfioramento. Un lieve venticello potrebbe scompigliare la sua capigliatura e far svanire così ogni incanto. Fabbricando la sua bocca si è pensato solo alla possibilità di baciarla; è meglio non pensare al terribile destino dell’uomo che dovesse ascoltarla. Per fortuna, il contatto con la pin-up avviene in un silenzio in cui si odono soltanto il fruscio della luce che vibra ed i battiti del proprio cuore. La sua bocca è proprio quello che lo slang Americano intende dire con la parola che la definisce: a kisser.

La pin-up girl è uno spettro privo di sostanza.

Uno spettro che è soltanto raccapricciante, ma che non suggerisce mai una creatura, non può mai più fare paura, giacché quello che si teme nel fantasma non è la nebbia, ma l’uomo. Allo stesso modo, la pin-up non è mai oscena: non è altro che nebbia sensuale. Forse è proprio per questo che la società l’ha accettata (sia pure, come abbiamo visto, non senza ipocrisia).

Essa se ne sta lontana dagli scandali dell’amore; ogni contatto tra due esseri umani implica scandalo, ma essa non è umana. Essa è sottratta a quanto di scandaloso, nella civiltà occidentale, è tuttora insito nella sessualità.

Ed essa è libera dalla fisiologia del suo sesso, è priva di tutto quello che i bennati specialisti pubblicitari non dicono.

Ha tempo e danaro a sufficienza, può curare assiduamente la sua permanente. È distaccata dallo scandalo della natura e dallo scandalo dell’arte. Sul muro di camere di adolescenti essa rivaleggia con Constellations, Skymasters e navi da guerra.

In effetti, quando un signore che si rispetti trae una sigaretta da una scatola su cui essa è ritratta si sente ricco, giovane, felice e pieno di una beatitudine di cui non ha bisogno di vergognarsi. Una volta di più egli crede nel «sogno».

Note a La fenomenologia della Pin-Up Girl

Di Willem Frederik Hermans si trovano in italiano tre romanzi.

  • La casa vuota. Milano: Rizzoli, 2005. Traduzione Laura Pignatti. Titolo originale: Het behouden huis, 1952¹.
  • Alla fine del sonno, Milano: Adelphi, 2014. Traduzione Claudia Di Palermo. Titolo originale: Nooit meer slapen, 1966¹.
  • La camera oscura di Damocle. Milano: Iperborea, 2022. Traduzione Claudia Di Palermo. Titolo originale: De donkere kamer van Damokles, 1958¹.
  • Ho scritto un articolo su Hermans e il suo amore per i gatti. È in nederlandese. Lo trovate qui.
  • Più informazioni sulla pagina wikipedia.

Fenomenologia della Pin-Up Girl di Willem Frederik Hermans

 

 

August Vermeylen Ahasvero sulla via del cielo

Le pagine di August Vermeylen Ahasvero sulla via del cielo sono le prime del terzo capitolo del suo primo romanzo ‘L’ebreo errante’. Fu pubblicato col titolo De wandelende Jood nel 1906. August Vermeylen (1972-1945) pubblicò solo due romanzi nella sua vita. Lo scrittore era nato a Bruxelles e di lingua madre nederlandese. Insegnava storia dell’arte, ma si occupò soprattutto di letteratura. Diventò professore universitario di lingua e letteratura nederlandese prima a Bruxelles e a Gand poi.

August Vermeylen: Ahasvero sulla via del cielo

Ahasvero sulla via del cielo

In una radura di quel bosco viveva un vecchio eremita: la sua celluzza era cosi piccola che un coniglio l’avrebbe misurata in quattro salti. Il santo uomo dormiva su un letto di foglie secche. Si cuoceva da solo il suo pane di segale, coltivava un po’ di legumi, teneva una capra e una dozzina di pulcini. Coi bei canestrelli ch’egli sapeva intrecciare si procurava di tanto in tanto i suoi piccoli agi da un villaggio lontano, e talvolta anche dei pellegrini gli portavano qualche buon boccone comprato alla fiera della sagra, come trippe bianche e nere con orecchie e zampe. Ma la sua anima e ogni suo atto erano sempre rivolti soltanto a Dio. Ammirarlo e lodarlo in tutte le sue opere, smarrirsi nella contemplazione della sua infinita bontà – questo lo occupava, questa era la sua vita.

Ora, un mattino per tempo. ch’egli era già in giro, a rimirarsi con riconoscente meraviglia il miracolo di tutti i giorni, la mattutina chiarità del sole che giocava per l’umido fogliame, gli avvenne di trovare un uomo che giaceva bocconi, le braccia tese, e gemeva fioco. L’eremita andò a prendere acqua in un rigagnolo, lavò il viso allo straniero, e quegli parve finalmente svegliarsi come da un sogno, con lo sguardo smarrito. Non capi ciò che il vecchio gli diceva, e si lasciò condurre barcolloni sino al letto di foglie, sul quale s’abbattè esausto.

Ahasvero scottava di febbre, e le visioni gli abbuiavano il.ricordo; l’inferno ancora chiamava dietro di lui, ed egli si aggrappava stretto al braccio dell’eremita, per non cadere in quell’orrendo abisso come un sasso in una voragine. Il vecchio, per calmarlo, gli picchiava piano sulle mani, come si fa coi bambini, ringraziando in cuor suo Iddio, che forse lo aveva scelto come strumento per la salvezza di un povero peccatore.

Ogni volta che Ahasvero apriva gli occhi, si vedeva subito vicino il buon vecchio, e il sorriso di quel volto rugoso era cosi schietto, che Ahasvero pure sorrideva fievolmente – egli sentiva una debolezza estrema…

Quel giorno non fecero quasi parola. A tratti Ahasvero domandava da bere, la fresca acqua di fonte gli ristorava per un momento il cuore. Quando la febbre gli dava un po’ di tregua guardava semi-incosciente i quieti gesti dell’eremita, che faceva un decotto di erbe pel malato o si cuoceva la pappa o sommesso pregava sulle grosse pallottole del suo rosario.

Ma verso sera Ahasvero provò un’angoscia mortale: la misteriosa vita della cupa selva ricominciò a folleggiare di spettri che gli ululavano addosso. Soltanto quando sentì che l’eremita lo teneva per la mano riuscì ad aver ragione dell’incubo, e al vedere curva su di lui quella chiara figura, gli parve a un tratto di aver davanti sua madre. Cosi entrò dolcemente in sonno.

Quando il gallo lo svegliò, cantando, il bosco, dalla porta aperta, -era tutto azzurrino della prima luce; per la piccola finestra un raggio rosato scivolava nella cella, e fuori nella frescura era un pigolìo e un gorgheggiare di cingallegre e merli; persino il vecchio eremita, Ahasvero lo udiva cantare qualcosa come una preghiera, sopra un motivo riposato e uguale che echeggiava con grazia infantile.

Cosi Ahasvero rimase un momento in dormiveglia, mentre i ricordi di quando era ‘bambìno gli si levavano in cuore di loro moto; la mamma lo conduceva alla chiesa. dove egli cantava col coro; nella chiesa c’erano nuvole odorose d’incenso, e bei lumìcìni che ardevano tutto il giorno ecose d’oro che brillavano nella penombra, La mamma era morta presto, aveva sempre un aspetto triste… Egli richiuse gli occhi, e sognò di quell’incenso e di quel canto, finchè non entrò l’eremita adagio adagio. Questi parlò con voce pacata e gli portò latte e pane ed uova, cose che fecero un gran bene ad Ahasvero, poichè egli sentiva di nuovo l’avida vita del suo corpo.

« Voglio vivere… » disse con una domanda nello sguardo e il vecchio rispose: « Dio ti guarirà».

Ahasvero stesso fu sgomento di avere la voce cosi fievole. « Dio… » mormorò, e subito tacque all’udire quella parola dalle proprie labbra.

E siccome ora si era messo seduto, guardando intorno scorse presso la finestrina un ceppo di legno sul quale un crocifisso allargava le sue braccia, e vicino un libro nero e un teschio. Ahasvero considerò a lungo quegli oggetti, con tormentosa attenzione. Egli non capiva più che cosa succedesse in lui, pareva una misteriosa paura che esitasse ma ben sentiva che egli ormai giaceva là come un bimbo, che egli più non poteva odiare, che il suo orgoglio era spezzato, e di ciò provava un male soave, soave, come di una ferita da cui il suo sangue stillasse invisibile.

« Non chiedetemi chi sono… non chiedetemi nulla…»

Si lasciò ricadere indietro, e le sue scarne mani pendevano inerti; e in petto gli bruciava quella dolce pena.

« Dio ti ha mandato a me» disse il vecchio calmo e grave.

Ahasvero sorrise tristemente, e tacque.

Quel giorno passeggiò con l’eremita per il bosco. Nell’aria  vi era già la soavità dell’autunno; sulle ragnatele brillava una nebbia sottile, e la luce del sole aveva un biondo rossore che ogni cosa faceva bella come un bel ricordo. « lo vivo! » questo soltanto pensava Ahasvero, con una specie di meraviglia e semplice gioia. Sentiva: sotto i piedi il terreno, guardava il puro tremolio della luce tra gli alberi pieni di uccelli, aspirava il profumo dei lamponi, e tutto ciò era vita, vita – ma, poteva egli toccarla? non sarebbe d’un tratto svanita in un sogno? E ascoltava la voce serena affettuosa del vecchio, siccome un tempo le fiabe della mamma. Quanti anni erano passati? La sua vita era dunque stata una sola lunga malattia, da cui soltanto ora egli lentamente ‘guariva?

Verso sera erano seduti a fianco sulla cima di un nudo poggio, donde, guardando al di sopra delle vette degli alberi, si vedevano tutti i boschi stendersi in grandi ondulazioni che alla fine si confondevano diventando sempre più azzurre sino alla lontananza purpurea, dove il sole scendeva a morte. Laggiù sull’austero volto del bosco, cinto di silenzio, lucevano ancora i tardi raggi. Stando cosìa lato dell’eremita, tutti i mali, i terrori erano sbanditi, ma, quanto più quel mondo sussurrava pace,’ quanto più tenero si faceva nell’alto il cielo, tanto più Ahasvero riprovava in cuore la vecchia inquietudine, sentiva la ferita al cuore bruciare, intollerabilmente-soave nella fuggitiva luce della sera.

Tacquero a lungo. La figura dell’eremita era una immobile chiarità nel lieve crepuscolo. Il vecchio chiuse gli occhi per più profondamente contemplare dentro di sè la durevole bellezza di tutto ciò che aveva veduto, e disse a mezza voce: « Dio! ».

Quell’unica parola era come la voce del grande silenzio, in mezzo al quale essi stavano, perduti come in un mare.

« L’ho cercato per tanto tempo… » parlò Ahasvero breve e cupo, con la testa china verso il suolo.

« Che altro mai avresti potuto cercare? » chiese calmo .il vecchio. .« Ogni cosa che gli uomini fanno, è un moto verso Dio. Ma essi non sanno, e giacciono nel limo »,

« Io non l’ho mai trovato… ».

« Se tu soltanto supponessi che Dio esiste, non troveresti altro. Egli è la luce ineffabile. Come ogni fiamma balza verso l’alto, così la tua anima non può che salire verso la luce».

« Ma se tutto non fosse che sogno… ».

« Tutto è sogno, eccetto Lui solo».

La silenziosa marea dell’ombra si alzava lentamente: i boschi erano tutti neri, contro il cielo d’opale. Ed Ahasvero sentì, penando come non mai, che ciò che bruciava in lui, bruciava eterno, non era purtroppo sogno.

I giorni che seguirono egli vagò ancora pei dintorni, sospinto dalla sua inquietudine. L’immagine di quella sera restava in lui viva, in un con le parole dell’eremita: quei boschi neri, quel cielo luminoso curvato sul mondo… Là egli aveva d’un tratto capito chiaramente che cosa egli fosse; la Luce Ineffabile! questa parola era caduta nel più profondo del suo essere, e… ora che era stata proferita, egli la trovava così semplice, come se da lungo tempo l’avesse avuta dentro di sè, ignara. Non era in fondo questo, ch’egli aveva desiderato? Ch’egli ancora desiderava, se la fiamma di nuovo balzava in alto, nè gli era riuscito dispegnerlanegliabissi dellamateria!…

Oh,quegli abissi!… Da che era stato. laggiù, egli sentiva più che mai la sua impotenza, sentiva di essere un piccolo punto meschino, perduto nell’incompresa immensità: tutta la sua vita anteriore gli pareva raggrinzita a un nonnulla, al fugace rumore di un passo nelle foglie secche, innanzi a quell’Uno’ veduto dall’eremita. Perchè avrebbe dovuto ancora negarlo, buttarsi giù dietro una pietra? quell’Uno egli lo cercava, lo cercava!

Ma… e se non fosse esistito?…

Lacerato dal dubbio stette a lungo, con la testa fra le mani, sommerso in una notte orribile, fìnchè di nuovo in lui albeggiò un chiarore, e quel chiarore somigliava auno sguardo ch’egli ben conosceva:

« Qualcosa di quella Luce era negli occhi di Cristo… » pensè trasognato.

Corse pel bosco incespicando, chiamando: « Dio! Dio! » come se ciè potesse servire. S’finito rigiacque sull’erba torcendosi le mani, chiamando: « Dio! Diol »; ristette sul poggio aperto e, ritto, la testa all’indietro, gli occhi chiusi, chiamò: ( Dio! Diol »-‘ma fu immutabilmente, eternamente solo.

Segui con lo sguardo un’allodola che cantando saliva saliva nell’aria, tanto alto che spari nello spazio radioso. « Dovrà pu’r tosto tornare al suolo! » pensò ridendo Ahasvero. Anche i suoi pensieri volavano cosi, ma essi erano come uccelli ciechi che salgono verso la luce e poi, fulminati dalla loro stessa disperazione, roteando sulle ali arse ripiombano giù nelle tenebre.

Persino nel chiaro giorno tutte le cose della terra gli parevano buie, come in quella sera: tra i vecchi alberi del bosco per lui filtrava soltanto una fioca luce di sotterraneo.

A tratti pensava: «I miei piedi sono stati nella morte, le mie mani hanno sentito la morte, io non posso nulla, io non sono nulla, prendimi, o Dio, nella tua immensità! ». E talora, siccome il sangue in lui s’era di nuovo rinvigorito, si levava anche la voce d’un tempo: « io non trasgredirò »; allora errava ostinatamente per la solitudine dei boschi sino a sera, quando esausto e affamato riparava nella celluzza, e si sedeva quieto vicino all’eremita. Dicevano poche parole, ma Ahasvero, si sentiva meglio e più sicuro. Perchè, guardando la calma figura del vecchio, vi vedeva una certezza ch’egli non capiva, ma pure subiva.

E, Ahasvero non credeva, tuttavia qualcosa gli era strisciato dentro, ch’egli stesso non sapeva bene, qualcosa che avrebbe bruciato sempre più chiaro nella brace della sua anima squallida e buia: la speranza – la speranza che anch’egli un giorno avrebbe trovato la sua pace forse… […]

Note a August Vermeylen Ahasvero sulla via del cielo

  • Le pagine sono state tradotte da Giacomo Prampolini e pubblicate nel 1927.
  • Su August Vermeylen è disponibile una pagina wikipedia e qui una pagina sull’Enciclopedia Italiana.
  • La leggenda dell’ebreo errante ispirò molti scrittori. Inoltre esiste una vasta letteratura storica-critica.
  • August Vermeylen scrisse nel 1932 il breve lemma ‘Guido Gezelle’, poeta fiammiga,  per l’Enciclopedia Italiana. Ecco il link. Nel 1934 pubblicò nella stessa sede il lemma Jacob van Maerlant.
  • Per altri testi di scrittori olandese tradotti vedere questa pagina.

 

Harry Mulisch Il talamo di pietra. Un frammento dal romanzo

Il testo di Harry Mulisch Il talamo di pietra è un frammento tratto dal suo famosissmo romanzo Het stenen Bruidsbed  (appunto, Il talamo di pietra), pubblicato nel giugno 1959.

Harry Mulisch Il talamo di pietra - frammento dal romanzo
21a edizione, febbraio 1972

Il romanzo è il frutto di un confronto con la Germania divisa e lacerata dalla guerra e ci pone davanti al problema della guerra in quanto responsabilità individuale e collettiva. Norman Corinth, un dentista americano che nell’ultima guerra bombardò Dresda, anni dopo si ritrova in questa stessa città in occasione di un congresso. La guerra lo ha spersonalizzato ed egli è alla ricerca della sua vera identità. Un incontro con una comunista della Germania dell’est ha su di lui un effetto di choc che lo conduce alla coscienza della portata delle sue azioni.
Per motivi di leggibilità ho diviso il testo in due paragrafi.

I

« Quanto tempo ci sei rimasta? » La sua voce era calma, dolce.

« Sei anni. »

« Perché? Ebrea? »

« Comunista. »

Egli pensò: il supercodice; e adesso mi abbraccia.

« Devo spegnere la sigaretta,» disse lei e cercò di svincolarsi.

Egli pensò: pericolo!

« Dammela, » rispose, prese la sigaretta dalle dita di lei e la schiacciò sul tappeto. Ella lo guardò e disse:

« Soldato. » Gli guardò il viso senza riservatezza (era mai stato diversamente?) e chiese:

« Perché Russi? »

Egli se la strinse di nuovo.

« Per qual ragione credi tu che fra centinaia di migliaia di dentisti americani abbiano pescato proprio il mio nome? »

« Perché tu sei il migliore. »

« Non mi far ridere. »

« Perché sei comunista. »

« Oh, » rispose « tu credi che io abbia sciorinato in America i principi del Partito? »

« Non lo so. Sei stato nell’Esercito Rosso? »

« Sorry se ti deludo. »

« E come sei finito da loro? »

« Caduto dal cielo. »

Ella rimase un attimo silenziosa.

« Bombardavi le città? »

« Sì. »

Volle svincolarsi, ma lui la strinse contro il suo corpo, con un risolino agli angoli della bocca. All’improvviso ella rispose al suo abbraccio ed asclamò: « Oh, Gesù Cristo! »

II

Tacquero e non si lasciarono. La stanza li abbracciava entrambi. Drup, drup, drup, drip, drap, drop: il rubinetto.

« Per questo, oggi, ti sei levato il cappello quando guardavi la valle» disse lei.

« Mi sono levato il cappello? »

« Sì. »

Cercò di ripensarci, ma non poté ricordarsene. Gli sembrava ridicolo.

« La cosa ti perseguita? » chiese lei.

« No, » rispose, « perché? Tu saresti voluta restare un anno ancora in galera? »

« Pensavo a Dresda. »

« Quelli erano inglesi, » disse ed aggrottò il viso.

« Avrebbe fatto differenza se ci fossi stato anche tu? »

Egli pensò: se le dico che la seconda ondata era composta di americani (e che la terza ondata dovette ripiegate verso Lipsia, perché il calore era diventato troppo forte), sciupo tutto.

« No,» rispose. Stette un po’ a pensare. «È come non fosse mai accaduto. Tremila anni fa. Io sono un greco perito sotto Agamennone che vive ancora. Non me ne ricordo mai. »

Lei lo osservava.

« Non trovi questo più angoscioso che se ti perseguitasse? »

Corinth scosse il capo: allora sentì che il viso gli diventava umido e con questo era peggio – ma non sapeva che cosa fosse peggio. Era peggio. Era peggio. La guardò spaventato, spalancò gli occhi e si guardò intorno per la camera buia. Con gli occhi sbarrati guardava dalla finestra al letto dalla lampada a un tavolino, come se in tal modo potesse impedire a qualcosa di diventar peggio.

III

« Cristo, » disse afferrandola per le braccia e senza poterla guardare, come se non potesse lasciare la stanza e le cose, « Cristo, Hella, c’è qualcosa in me… » Ansiosa ella guardò le gocce di sudore che gli si ingrandivano sulla fronte, vicino al naso. I suoi occhi divoravano la stanza. Era sempre peggio, era qualcosa d’invisibile: un notturno tremore in cose immobili come morte, come non fossero più se stesse, uno schiudersi che lo minacciava disgustosamente. Pensò: luce, luce, ma non posso parlare; sentiva che tendeva in maniera inumana le sue forze, ma quali? come? contro che cosa? Poi notò che tutto diminuiva, come una tempesta che s’acqueta all’improvviso, e scompariva.

La guardò.

« Che cosa è stato? » non aveva quasi più voce.

La camera era la camera, Hella Hella. Gli occhi di lei erano tondi di spavento; non poteva articolar parola. Corinth si passò una mano sul viso e girò lo sguardo per la stanza, cercando qualcosa, sebbene sapesse perfettamente che non vi avrebbe trovato nulla, né là né altrove, e che non c’era più nulla, come se nulla vi fosse mai stato.

«Era qualcosa – ad un tratto… Come se… » Alzò le spalle disperato.

« L’hai avuto ancora? »

«Mai. »

Con la punta delle dita gli toccò il volto e lo guardò. Era proprio a pezzi, come poco prima, quando aveva detto: Non è la più bella donna del mondo?

« Svestiti, » gli disse.

« Sì. »

Note a Harry Mulisch Il talamo di pietra

  • Non risulta che il romanzo di cui è tratto questo frammento abbia mai avuto una traduzione integrale in italiano.
  • Una pagina wikipedia (it) con alcuni link ad altre voci è qui.
  • Per altri scrittori tradotti in italiano vedere questo riepiligo.