Menno ter Braak Carnevale dei borghesi, 1930

L’opera di ter Braak ha un carattere essenzialmente critico. Non nel senso ristretto di critica letteraria, ma di critica totale verso ogni forma di vita e di pensiero. L’inizio del saggio Het Carnaval der Burgers, in italiano Carnevale dei borghesi (1930) introduce subito nel cuore del pensiero di questo autore sempre teso a smascherare le illusioni convenzionali allo scopo di riscoprire l’illusione nella sua freschezza di momento creativo. In un discorso filato e inesorabile egli traccia le linee essenziali che convergono nel paradosso della realtà, quelle di individuo e società, sempre separate, ma mai divise. Dalla monografia di Menno ter Braak Carnevale dei borghesi segue un frammento.

Menno ter Braak Carnevale dei borghesi
Prima edizione.

Un frammento

«Noi» siamo la vittima dell’« io » impotente; «noi» siamo la fredda pietrificazione e la calda illusione dell’« io », Per questo il credo di queste righe è nato tra la pietrificazione e l’illusione, nato come ripulsa del « noi » e come amore per il « noi ».

Il «Noi» è il vuoto, vuotissimo titolo di questo secolo: il pluralis maiestatis del giornalista che nessuno conosce e la cui opinione non è richiesta. Ma «noi» è anche la flotta di veloci e obbedienti panfili, che all’unisono si piegano sotto le stesse raffiche di vento. «Noi» è la paura del bimbo che di notte si sveglia ad un’ora insolita. È afferrato dal pensiero della morte: allora unico conforto è la presenza dei molti, degli altri. Sempre « noi », dopo la pace di Utrecht, abbiamo trascurato le nostre piazzeforti.

«Noi» danziamo, tutti, noi al carnevale, e «noi», noi tutti, abbiamo dopo la pesantezza di testa; e allora pensiamo «noi» che proprio con noi è arrivato o arriverà « l’uomo nuovo », «Noi» è il nostro primo ed ultimo gesto di tenerezza, e «noi» paghiamo le tasse.

Il «Noi» è il nostro carcere; «noi» ci perpetuiamo nei nostri figli; « noi» è la nostra libertà e il nostro andare verso l’orizzonte. « Noi»: insopportabile restrizione. E «Noi»: magica espansione. «Noi»: ognuno ha due braccia, due occhi, un sol naso, o infinita ripetizione. «Noi»: nessuno è privo di un anelito alla comunione dei santi.

Noi siamo borghesi. Noi vorremmo essere poeti. « Noi» è la formula la più generale e comune per la convivenza delle pecore. « Noi» è la più profonda e triste attesa per unirsi e fondersi. E «Noi» sono i confini inesorabili e l’opposizione contro tutti i confini.

Senza « noi» né frasi, né sonetti. Senza « noi» né guerre, né apostoli. Con «noi» esiste il mondo e per mezzo di «noi» esso continuerà a perire.

Vi sono notti di prima estate, in cui la pietrificazione del « noi» e l’illusione del « noi» sembrano concentrarsi ed annullarsi. Si erra solitari per i parchi delle grandi città e lungo le lontane sagome delle case si insinua ondeggiando un confuso canto di centinaia di radio, che resta sospeso tra i rami indolenti degli alberi attoniti, come aggrovigliata vegetazione di suoni. Ma le isole di verde e i freschi bacini degli stagni si oppongono ad ogni disturbo; la calda tenebra assorbe le note gracchianti delle stazioni trasmittenti.

I parchi vivono. Essi formano la sala da ballo del carnevale dei borghesi, che si festeggia qui con disinvolta allegria. L’oscurità è maschera e berretto a sonagli. Il grande fortino si muove e respira. Vi regna una legge che non si può eludere. Si desidera evitare la matematica degli uffici: uno più uno fa due con una somma incalcolabile: uno più uno fa uno. A coppie i borghesi entrano nel luogo della festa che già comincia a essere avvolto d’ombra, per immergersi nella notte, per poter far parte di un certo grado di follia.

Mani e braccia non sembrano più essere strumenti per scrivere, bensÌ soltanto prolungamenti di una forza cieca. Forza che alla luce del giorno si fa impacciata e timida, ma che invece risveglia degli eroi dopo il calar del sole. Nel cieco corteo verso la Coppia, all’improvviso è stato imprigionato un mondo che solo poche ore prima era immerso nell’elaborazione del bilancio annuale.

Lo stupido pensa che il sogno del « noi» sia a un tratto divenuto fine ben compreso, mistica meditata di tutta una massa, tanto sicuramente essi si dirigono tutti ai vialetti ove le panchine attendono. Con la regolarità della vita aziendale, i singoli remano verso il « noi».  Ma si inteneriscono e non vedono più come accanto a loro e dietro a loro si stia compiendo lo stesso rito. I prati tremano sotto l’univocità del grido civilizzato dell’accoppiamento; ma gli individui si credono elevati e annullati nell’altro. In maniera appropriata, allo scopo, a greggi, essi vanno gioiosamente incontro all’annientamento di sé; e non si sentono per nulla toccati dal fatto di documentare tutti insieme una unica legge. Ogni impiegato si sente un dio trionfante, ogni dattilografa una ninfa affascinante.

Nelle chiare e profumate notti estive poetica è la fecondità della terra. Non si desidera altro che vivere, che ripetersi all’infinito. Il pensiero della morte è qui un’ombra irreale, anzi meglio: è un peccato. Per la vita panica, la morte non è vera; essa può anche afferrare, inaspettata – un amante uccide la sua amata per gelosia, sopraffatto da una impeto di collera violenta –, ma essa non è temuta. I borghesi non pensano a lei ed al Giudizio Universale, poiché essi ora sono davvero preda della morte e in attesa di giudizio. Essi cercano con passione sincera l’unico «noi», in cui confluiscono per loro pietrificazione e illusione. Essi cercano l’Altro.

Questo altro appartiene alla loro razza, cui appartengono milioni; è vestito come altri milioni vanno vestiti; linguaggio e gesti sono adattati alle convenzioni rassicuranti di migliaia di affini; non vi sono montagne da valicare per diventare «noi» insieme con quell’altro bipede. Anche l’altro è un pietrificato; è stato educato con determinati luoghi comuni mediante i quali ci si può comprendere a vicenda, sui quali si può avere intesa: c’è una base di elementare solidarietà… Ma ora si danza con quell’altro al carnevale; scomparso è il borghese, l’altro, anche lui. .. potrebbe essere un altro.

Non si sono visti mai occhi così profondi, mani così slanciate; si affida la propria sorte a quelle mani irrepetibili, si crede, in migliaia di luoghi allo stesso tempo nella notte estiva, ad un incontro predisposto; nessuno si veste cosÌ, nessuno parla così come l’altro, l’unico di migliaia, il caso della lotteria! L’illusione è arrivata e per incanto da uno qualsiasi ha creato l’unico.

Chiamalo un miracolo, chiamalo circolo vizioso. Chiamalo poesia della fecondità o fecondità della poesia… Poiché non appena dalle migliaia di altri l’unico e irrepetibile Altro è stato creato per illusione, allora l’illusione deve diventare possesso. E nella notte estiva le migliaia saltano addosso alla loro preda, per possedere l’illusione. Diventare « noi», uscire dai limiti, uno più uno fa uno: questo è il carnevale dei borghesi, con la sbornia e il mal di testa. Una volta, forse dopo una sola notte di carnevale, forse dopo anni, arriva la scoperta che non si può possedere l’illusione, senza l’amaro sapore del possesso. Il possesso è pietra…

Di nuovo il «noi» come pietrificazione ed il «noi» come illusione si evitano. Il carnevale è finito, il Giorno delle Ceneri si gettano le maschere. Esiste un mondo diverso da quello dei parchi estivi, ove il transeunte pare eterno, dove la mistica dei borghesi ha un certo passo. La Coppia è nata, è incontestabilmente presente, ha lasciato dietro di sé il momento dell’illusione. Si è chiuso il circolo vizioso: proprio nella pietrificazione è nata l’illusione e dall’illusione nacque la pietrificazione… Nei caffè si incontrano queste coppie pietrificate, una donna acida e velenosa, un tipo grasso e soddisfatto di sé, che seduti zitti e con aria assente a un tavolino, covano per ore intere peccati che non hanno coraggio di compiere.

Le strade sono piene di tipi come loro, ma nei parchi essi evitano i vialetti e le panchine. Da un tale annullamento nell’altro così trionfalmente accettato, nacque un odio, sia pure inespresso, per lo sporco inganno dell’illusione. «Noi» è diventato realtà, «noi» è diventato noia; l’altro, proprio quell’altro, si è logorato ormai da tempo diventando un altro, diventando un esemplare di migliaia di altri, che egualmente avrebbero potuto venir scelti. E perché non quelle migliaia di altri e perché invece proprio quella tal creatura cui si è restati attaccati?

E gli occhi dell’uomo errano verso la sorniona illusione creata dagli anni avanzati, mentre la donna va a caccia del favore dei figli. Illusione a tutti i costi… Ma il circolo vizioso è chiuso ormai da tempo e le gioie si fanno più vuote.

Ogni carnevale ha un Mercoledì delle Ceneri sempre più nero. Al carnevale, tempo di slancio e di cecità dinnanzi alla ripetizione, seguono monotone quaresime; carnevale e quaresima stanno in rapporto come illusione e pietrificazione.

Carnevale: istante, ubriacatura, sogno, fantasia… «noi».

Quaresima: ripetizione, regola, risveglio, convenzione… «noi».

Borghesi che vogliono diventare poeti. Poeti che non si liberano mai dal loro stato di borghesi.

Note a Menno ter Braak Carnevale dei borghesi

  • Di Menno ter Braak è disponibile in italiano l’importante saggio Il nazionalsocialismo come dottrina del rancore. Sant’Oreste: Apeiron Editori, 2019. Cliccare qui.
  • Il testo riportato si trova nell’Antologia delle letterature del Belgio e dell’Olanda. Milano: Frattelli Fabbri Editori, pp. 325-328.
  • L’originale in: Menno ter Braak, Verzameld Werk. Amsterdam: G.A. van Oorschot, 1950, vol. I, pp. 11-14. Traduzione di G. Antonelli.