Il seguente testo è il nono capitolo de Monte dei sogni Fiaba scritta da Arthur van Schendel e pubblicato nel 1913. Albert Verwey – che considerava Arthur van Schendel ‘uno scrittore eccellente’ – scrisse una recensione sulla rivista letteraria De Beweging molto favorevole. Più informazioni in calce.
Capitolo IX
Tutti partono per la terra che gìace più in là. L’alldola,
e ciò che Dedan narra intorno al cantore
Davanti alla porta, nel fiorito giardino del re, la bella moltitudine era di nuovo adunata, con grandi grida di esultanza e di attesa. Le trombe squillarono fragorose, prima verso oriente, poi verso ponente. Allora sulla porta della torre apparve il Re, chiaro in volto, con la Regina che gli camminava a lato snella e bianca. E, mentre il giubilo della folla brillava nell’aria come un tintinnio d’oro e il caro nome della principessa echeggiava senza tregua, il Re condusse la Regina verso i due bianchi cavalli che, bardati di porpora come s’addice a cavalli regali, erano là ad aspettarli, ed entrambi montarono in sella. Poi il re tese il braccio in alto e le trombe squillando annunciarono che ognuno doveva seguirlo. Il cielo tremò di letizia.
Ma chiara suonò la voce di Regello sbirro, che sopravanzando tutti dal suo piedestallo gridava calmo e per ordine i nomi. I primi a essere chiamati furono il ragazzo, la fanciulla e Tobia, Puikebest e Kaka, Alfrade e Denkmar che uscirono insieme dalla calcae sfilarono in silenzio per l’orobra della porta. Seguirono sotto il sole radioso gli dei, taciturni e freddi, in una schiera imponente. Poi vennero i vecchi a due a due, ornati di verdi corone, deboli ma bramosi di essere svelti. Indi le fate e gli elfi in un leggiadro turbinare di scintillii e colori, da ultimo, a passi pesanti, maestose e soddisfatte, le grosse fiere, leoni e bufali, cammelli e liocorni. E, una volta dentro la porta, tutti tacevano, il chiasso restava nell’aprico giardino.
Sull’altro versante dove il Re e la Regina di nuovo cavalcavano all’aperto, spirava il vento caldo e profumato di una terra ignota, di una terra strana come se ne vedono in sogno una sola volta, due al più, e la luce azzurrina lungi fluiva sfavillando sugli estivi campi in declivio. Il Re avanzava lungo il ruscello e il suo sguardo era fisso e pensoso. La fanciulla canterellava, con gli occhi al movimento delle pieghe nel mantello del Re che le stava davanti, e Reinbern respirava piano, tendendo l’orecchio nell’aria afosa.
D’un tratto la fanciulla lo rattenne: il Re si era fermato. L’araldo accorse e parlò col Re, poi soffiò nella sua tromba e gridò che ora la folla doveva sparpagliarsi e cercare a suo talento Eva Beata, perchè quella era la terra per dove sino al tramonto andava la bella principessa. Poi diede un nuovo squillo, l’aria rimbombò e ronzò, e mille occhi guardarono raggianti .in ogni direzione e mille esseri si misero a sgambettare qua, là, per ogni dove, variopinti e vividi sui freschi campi.
«Noi siamo amici, cerchiamo dunque tutti insieme» disse Denkmar. La sua voce sonò pacata come sempre, ma più bella e profonda, come se giungesse di lontano.
«Da che parte vogliamo andare?»
«Dov’è Peter?» chiese il ragazzo.
«Peter è rimasto indietro a coltivare il suo campo. Nemmeno l’uomo che fa il pane ha voluto venire, ha preferito starsene a vedere Peter lavorare.»
«Avanti allora!» gridò Tobia.
Reinbern confuso raggiunse di corsa la fancìulla. La mattina si faceva calda, la luce raggiava sulla purità del cielo e della terra. I sette avanzavano lungo il ruscello, chiacchierando sottovoce, Rein e la fanciulla un po’ più indietro. Il ragazzo sapeva che stava avvicinandosi alla cosa fra tutte più cara, e desiderava di poter vedere la bontà e la forza fedele degli occhi di Peter. Era una nuova terra, quella per cui andavano: i cespugli vi splendevano con più fervido rigoglio che nel giardino dall’altra parte della porta, il cielo vi scintillava più calmo e profondo; l’aria aveva un dolce sapore nelle loro bocche, e le voci un suono più pieno di prima. Era una terra con ampie ondulazioni collinose e campi opulenti d’erba che nessun piede sino allora aveva mai premuta; gli animali che colà vivevano. si erano certamente rifugiati in qualche parte, perchè nell’ aria passavano respiri. come di creature che àspettassero all’Ingiro dietro i pendii. E Reinbern, con la mano della fanciulla nella sua, pur camminando cercava intorno con lo sguardo, e anche gli altri parlavano poco, ma guardavano in giro e ascoltavano se giungesse qualcosa.
Giunti in cima al poggio per cui stavano salendo si fermarono. Là sotto vi era un piccolo stagno. L’acqua era così limpida che iI loro sguardo vi penetrava senza scorgerne il fondo, e lo specchio della superficie stranamente immobile pareva fosse di cristallo polito. Sulla riva opposta si ergevano giovani arboscelli, appena sbocciati in fiore.
A un tratto un uccellino esultò alto nel cielo e, quanto più saliva nella luce, tanto più puro e aperto cantava il suo trillo dorato, ed egli continuava a salire nella fragile azzurrità, finchè non vi fu altro che cielo e un fievole tremolio di suoni. Tobia, fissava in alto, allungando il collo, Kaka teneva il naso rivolto agli arboscelli dell’altra riva e Reinbern, intenerito di gioia, con le mani sul petto e calde lacrime negli occhi, vedeva dappertutto uno sfarfallio di piccole scintille. Chi si fece udire per prima fu Alfrade. Essa mormorò qualcosa a un essere minuscolo che le stava vicino, e aveva un mantello arancione, sottile come un’ala di farfalla, una catenella d’oro alla cintura e un piccolo flauto in mano.
«Lo aiuterò, lo istraderò e gli insegnerò, perchè io sono il re» egli disse. «Venite tutti qui, guardate l’acqua e ascoltate.»
Quelli si disposero in fila dietro di lui e, guardando ora il suo viso ora il piccolo stagno secondo egli indicava col dito, cosi lo udirono parlare:
«Guardate, questo è lo specchio. Guardate quel fiammeggiare dr porpora là nel profondo. Quello è il respiro, quello è il profumo, quella è la musica che è in tutto il mondo, e più sotto nessuno può vedere. È il respiro, è il profumo di colei che voi cercate. Voi cercate la principessa, la supremamente cara, e, se non l’avrete trovata qui, in questa terra, nei campi e nei boschi che nessuno mai la più rivedrà, sui colli e lungo i burroni che nessuno ritrova una seconda volta, sin dentro i più cupi antri delle rocce che esistono soltanto un attimo, io vi dico che mai, mai non la troverete in qualche parte. Questa terra è la natura che ad ogni istante giunge e sparisce come il respiro di un uomo nell’aria, Guardate ora che splendore, guardate, ecco il Monte.
Nello specchio dell’acqua essi videro l’altissimo Monte sul quale si trovavano: giù in basso l’ampia verde falda piena di piccoli fulgori e fiorita di primavera: poi, più séura, la mediana, alta e calma, avvolta in lucenti n-ebbie d’estate che scendevano lungo i boschi a valle; infine la vetta, color carminio e viola, e fiammeggiante sino a una tenebra ove non c’era più bulla. E tutto il Monte rosseggiò di fiamme, diventò nero, spari.
«Il Monte appare e scompare cosl di repente come voi perdete e ritrovate la principessa. Il fuoco lo fà scomparire, ma il fuoco stesso, da cui esce il respiro, rifà ogni cosa, Guardate quel rogo di porpora, esso è lo stesso alito, la stessa musica che dà vita a tutta la natura. Ora non indugiate oltre, ma andate avanti e cercate. lo verrò con voi, finchè uno dirà dove si deve cercare, perchè chi dice questo sa già il principio della strada. Io mi chiamo Dedan, e sono re e servitore. Venite per di qui lungo la riva, passando a fianco di quegli arboscelli.»
E andò avanti con Alfrade. Gli arboscelli flessuosi e di legno argenteo erano distanti l’uno dall’altro in modo che il sole batteva su tutte le erbe del suolo, e i loro rami con i fiori e bocciuoli vermigli pendevano immobili nell’aria azzurra. Vi era una pace scintillante, ondeggiava un caldo profumo di fiori, carezzevole come dita leggere. Dedan imboccò il suo piccolo flauto e ne trasse poche note che salìrono nel morbido tepore. Poi fu di nuovo silenzio, un silenzio più quieto e caldo che prima. Alfrade chiuse ridendo gli occhi e levò in alto le mani come pregasse. Allora alto, alto nel cielo essi udirono un tenero canto di gioia, e con gli occhi chiusi e il viso rivolto verso il sole .avanzarono lenti dondolandosi, tra gli arboscelli. I pigolii, i gorgheggi, i lisci trilli fluivano via nello spazio assolato sino a impiccolirsi come una ragnatela d’oro o una scintilla dì rugiada, e il canto pareva durare senza fine, eterno. Ogni più lieve e più sottile suono fuggiva verso il sole, com’e il caldo riso di un piccolo raggio. Ma d’un tratto il canto cessò. Essi si fermarono e guardarono la strana terra intorno a loro. E, mentre cosl stavano mirando per ogni parte in tacita meraviglia, Reinbern senti sgorgargli dentro il petto un piccolo suono, ch’e fluttuava lieve in una serica ragnatela di canto. Il viso della fanciulla sfavillò di luce e, quando le labbra di Reinbern si schiusero e la sua voce danzò pura nell’aria, essa pure aperse la bocca, attonita di letizia. Egli cantàva come non sentendo colpa di non sapere ancora la melodia, attento solo a bene seguirla. D’un tratto .ebbe un fremito: aveva veduto qualcosa in cielo. E nella radiosa mattina la sua voce squillò gagliarda e fresca, sali sempre più pura, lieve calò a note più discrete poi, di nuovo balzò dal petto fluendo in uno scintillante impeto di gioia, cosi sonora, cosi superba che all’intorno cento piccoli echi sorsero esultando dietro i cespugli, e lo stormire ridiceva il canto e lo portava oltre l’azzurro pendio. Gli altri ascoltavano muti e intenti, ma Dedan segnava il tempo saltellando lieto ora sull’uno ora sull’altro piede, e Reinbern mentre cantava vedeva per tutto il cielo piccoli splendori, cupe scintille accese e sapeva che quelli erano occhi che guardavano, gli occhi della carissima. E sentiva il cuore grande e pesante, e uviso in fiamme, e la suavoce risonare pura e bella come se un altro cantasse dentro di lui: egli l’ascoltava, cieco di gioia. All’improvviso tacque, senza più fiato, e agitò le braccia per rinfrescarsi con la brezza profumata.
Tobia lanciò in alto il suo stridulo canto, guardò ciascuno e disse che tutti dovevano fare coro. A Rein rise piano il cuore, ma la sua voce tornò a squillare chiara; allora la fanciulla lo accompagnò, timidamente ma con fervore di bontà, come se cantasse per una bambola, e, Puikebest la segui attento, con tono ancora più basso e discreto. E, l’uno ascoltando l’altro, l’uno irrompendo con maggior letizia quando il canto dell’altro si spegneva in un tremolio, fra loro tre empivano l’aria di sempre nuova musica, e tintinnii dorati e fresco gorgheggiare, mentre Kaka con le larghe note dei suoi latrati segnava a tempo le pause come con un tamburo e Tobia, a tratti e sempre di sorpresa, scoccava verso il cielo i dardi del suo fiero canto. Soltanto Alfrade e Denkmar stavano zitti.
Quando alla fine il canto si smorzò pago nelle ultime note ed essi fiatarono soltanto, ancora lo udirono gorgheggiare piano tra le erbe vicine.
Poi anche l’eco cessò.
Denkmar guardava fisso. E la quiete era grande, perchè nulla si moveva nella campagna all’intorno. Ma ecco, Denkmar alzò la testa e fece un cenno. Tutti scorsero un uccellino che veniva verso di loro saltellando sull’erba e prima di ogni saltino aspettava un attimo per guardarsi in giro. Si fermò davanti ai piedi di Reinbern e alzò verso di lui gli occhietti scintillanti. Allora Reinbern, circonfuso di chiara luce in mezzo agli altri, sorrise e mormorò con gioia:
«So dove dobbiamo cercare. Se canteremo siamo sicuri di trovarla!»
Dedan alzò le braccia esultante.
«Egli sa, egli sa! solo che sappiate il principio, la trovate certamente. Io vi ho condotti vicino a Blido e così vi ho insegnato a cantare. Chi sa cantare trova sempre la strada.»
«Ma – chiese Denkmar – sai di certo che a ognuno basta cantare per trovare ciò che cerca?»
«Domandalo un po’ a Blido l’allodola!»
«Già! Un uccello è nato per cantare. Ma un asino, no.»
«Ognuno deve cantare – gridò Tobia – cantare è sempre bello.»
L’allodola tirò dentro le zampine e si rassettò leggera nell’erba, col petto contro gli steli flessibili e lucenti e la testina in alto; poi socchiuse gli occhi, e un chiaro trillo scivolò sul campo come un filo d’argento con pendule perline, sali più alto calò più quieto, come una farfalla che folleggia. Rein e la fanciulla si piegarono sulle ginocchia sino a toccare l’erba per essere più vicini a quella pura fonte di melodia. Anche gli altri si abbassarono sino al suolo e ascoltarono, l’uno a fianco dell’altro, senza muoversi: il sole raggiava su di loro e sulle piante, e la brezza che muove anche gli alberi più piccoli cosicchè il lieto seme vola tremando nell’ aria e la profuma, passava a soffi sui loro volti. E questo udirono:
«Il sole! alto è il cielo, alta come il cielo è la voce del mio cuore!
Nascendo, il sole io vidi, e quel primo raggio per sempre mi è rimasto nel cuore, nella testa, nella bocca, per sempreperchè il fuoco del sole mai non può perire. Nascendo udii la voce del mio cuore, e dalla gola effusi in dono tutto ciò che avevo di canto. Ma mai, mai donai abbastanza: quanto più canto io davo al puro tenero mattino, al cieco sacro meriggio, alla buona quieta sera, tanto più calma ‘e sonora diventava la voce del mio cuore, tanto più ardente e grave il fuoco che dentro porto. Che cosa brucia in me, il sole o il cuore mio? Quando nacqui il sole mi accese del suo fuoco, del suo car-o fuoco che accarezza, ed io nel cuore udii quel riso che è grande come tutto il mondo e mai non può perire. Che cosa è che mi arde, il sole del cielo o la gioia che entra in me ogni mattina, non appena i miei occhi si aprono e io mi sveglio e canto?
Di notte, quando più grande è il silenzio, a volte io apro gli occhi nel buio e lontano lontano odo un piccolo brusio, dalle nubi o dalla selva dietro i monti dove nessuno può vedere; so che subito esso si ripeterà, ma fà tanto buio che torno ad assopirmi e sogno. Allora odo voci che ‘passano, voci che sussurrano, lusingano, bramano, gemono e ascolto fìnchè non so più nulla. Ma d’un tratto dentro di me balza la fresca gioia ridesta, ho un sussulto e il cuore mi batte forte; guardo in alto e vedo il cielo struggersi in vapori argentei e gialli e fuggitivi veli di roseo splendore. Sento caldo, mi tuffo nella frescura, so che fra un momento torne; ò a cantare. Una luce dardeggia lungo il cielo, e acquieta il mondo. Un attimo, un attimo soltanto, perchè poi tutto all’intorno in alto e in. basso, splende e scintilla, irrompe la fiorita aurora, la’ sua veste di rose ruscella ricca, ed io odo la mia voce, la mia voce. ‘Spiego te ‘ali ‘e salgo alta e fresca verso l’aurora, con ciò che ho di più caro, la mia voce. E negli occhi prendo la luce del nuovo sole, e non vedo più nulla e canto, alta, alta nel cielo.
Quando ridiscendo alla rugiada e ai fiori della’ terra, il mattino s’è già messo la sua nuova candida veste. Allora, immersa nell’erba per me è una delizia mirare all’intornola luce. che appare violetta e quieta sotto gli steli, crea: magicamente strane figurine sulla sabbia, scivola nell’aria e scorre sui campi tenera saziando. E nella mia solitudine non posso altro che cantare piano, il mio cuore è grande.. ma piccolo e accorato il canto.
Pòi turgido cresce il mezzodì, forte dominatore di tutto ciò che vive, orgoglioso, possente e tende, tende l’arco del cielo finchè la terra diventa muta e grave di meraviglia e si odono soltanto piccoli tenui suoni. Nelle nascoste cavità, nelle più segrete ombre delle piante sprizzano acuti diamanti, e io che ho veduto il massimo di luce, allora vedo solo la purpurea profondità del mio cuore. Oh, ogni giorno, ogni mezzo di il fuoco mi scaglia in un grido verso l’alto, verso lassù dove non è terra, e io non so più nulla, non v’è più nulla tranne la mia voce, la mia voce e il sole. Lassù mi libro, dove non ci son più le nubi, le mie ali aperte riposano e la mia testa è fresca, lassù compongo un gioco con le note più care, più mie che fuggono via senza mai tornare, che nessuno tranne il sole ode; lassù vivo nella luce e canto, canto…
Ma nel tardo meriggio, quando la sera già comincia a radunare il suo gregge, quando odo le mandre chiamare dai pascoli, e risa dai villaggi e l’ampio canto degli alberi nella solitudine, allora ho il trillo più soave e più meraviglioso.
Il cielo s’impiccolisce e si scolara, nel mio cuore, vaga un piccolo canto che si scolara e langue. A ponente ondeggia una molle nebbia di crepuscolo, là il giorno abbrucia in silenzio il suo oro, e fiamme e faville cadono sul vermiglio sole che scende in un agitar di veli, e sul mondo fluttua il suo respiro, il suo profumo soave di rimpianto.
Nel mio petto si desta un piccolo suono, e come un bimbo che non sa se deve piangere o ridere, geme piano, dolente.
Ma allora si schiude il cielo che porto in me, e sicura m’innalzo a volo, là dove – posso vedere il sole sino all’ultimo, a volte odo io stessa la mia musica, sono sorda e sola, ma egli ode tutto, tutto quel che io canto e arde e fìarn meggia incontro a me fìnchè si frange e cade, come una goccia di sangue, come una goccia di luce. E il suo sospiro avvolge d’un soffio tutto il mondo. Col suo rogo nell’ anima ridiscendo all’ ombra, un viandante che passa nei campi trasale e affisa lo sguardo e sogna. Il sole stesso canta dalla mia gola…
Oh, ogni giorno, ogni mattino, ogni meriggio e sera nient’altro che cantare, cantare il mio diletto, il sole.»
E Blido balzò esultando d’in mezzo a loro verso la luce immensa.
Reinbern fissava il cielo, la fanciulla che gli era a lato i con le mani giunte, lo guardava. Egli non pensava, ma aspettava nel silenzio di luce. Ed ecco si rizzò il piccolo Dedan e così parlò, solenne e a bassa voce, tenendo un dito alzato:
«Ora ascoltate ciò che vi racconterò intorno a
Il cantore e il canto
come ciò fu al principio e come sarà sino alla fine. Blido è soltanto un uccellino che non può altro che cantare, non sa nemmeno che migliaia di uccelli fanno come lui, e degli uomini ha udito soltanto poche risa lontane. Gli uomini fanno altro ancora.
Or è molto tempo essi si trovarono insieme per la prima volta, ridenti e lieti, perchè le campagne erano fertili e belle, piene di alberi e di piante e limpidi fiumi. E batterono le mani e danzarono l’uno con l’altro per l’intera giornata. Ma la mattina dopo presero aratri e buoi e lavorarono a fare campi: tutti, giovani e vecchi, tranne uno solo, che doveva trovare il canto. Lavorarono senza posa dall’ alba sino a tardi, e quella sera furono troppo stanchi per danzare. Ma, udite! Mentre stavano tutti seduti in cerchio a mangiare sotto gli alberi echeggiò una voce bella, più grande e calda che quella dell’usignolo; una fanciulla s’intenerì, si alzò dal cerchio e se ne andò piangendo. Allora capirono che era la voce di uno dei loro, di un adolescente, il più giovane, il più bello, uno sventato che rideva o piangeva per nulla, correva a guardare le nubi quando c’era un lavoro faticoso, che diceva follie o giocava coi bimbi quando gli eiani parlavano gravemente. E taluni ascoltando approvavano con la testa, contenti, compiaciuti di quel grato suono. Quando l’indomani per tempo tornarono ai campi chiamarono seco perchè guidasse l’aratro. Ma egli rise ece udire il bel suono che aveva ritrovato. Ed essi, mentre impiegavano la forza delle braccia, sudando e ansando, scambiavano a tratti sorrisi o guardavano dalla parte dove l’udivano, ora qui, ora là, dietro i boschetti o giù vicino al fìume, e qualcuno accompagnava canticchiando, e tutti non sentivano la stanchezza delle braccia. Cosi fu per li giorno della primavera e dell’estate. Poi venne il tempo accogliere ciò che essi avevano seminato e curato, e sole, gia e terra fatto crescere. Allora il giovane cantore lasciò i suoi angoli quieti, corse al campo e, attonito, rapito dalla bionda odorosa opulenza, si empi le braccia di spighe donde cadevano i grossi grani. Preparò i covoni, più spedito e ilare di ogni altro, se li caricò sul dorso e instancabile li portò alla battitura. Fu il primo che curvo agitò il coreggiato, gli altri a tratti giocavano facendo quella, ma egli taceva e non prendeva riposo; qualcuno gridò che ora doveva far udire il suo bel suono, ora che avevano davanti la splendida messe, ma egli fu muto e lavorò. Quando tutto il lavoro fu finito e il nuovo grano accolto in monticelli splendenti, tutti, uomini e donne, si prepararono per la festa della danza e del cibo e del bere. Allora in mezzo a loro si levò l’adolescente e alzò le braccia cantò. Era il suo primo canto e il più bello, e sarà il cantico dei cantici, finchè vivranno uomini.
Cantò, dapprima sussurrando, con le braccia fitte e giunte: cantò la buona grande terra dove uomini vanno e uomini riposano, la mite terra che riceve le semenze e prende cura e le fà crescere con abbondanza per sa e gli uomini. Cantò, con le braccia aperte, il cielo dove ogni giorno sorge il sole, che accarezza la terra e illumina e riscalda gli uomini cosicchè essi si vedono e si amano l’un l’altro; il cielo donde scende la pura pioggia che rinfresca e ristora la terra secca e gli uomini languenti. Cantò l’immensa felicità degli uomini che lavoravano dopo il loro. sonno; e dopo il loro lavoro potevano danzare e riposare. E sulla fine la sua voce risuonò grave e ampia sui campi, leggera e alta sopra gli alberi: era un nuovo canto, felice eppure quieto di segreta tristezza, del desiderio che non sa dove sia la fine, un sacro canto di languore, e tutti quelli che erano là, s’inginocchiarono chiudendo gli occhi. Il cantore aveva trovato il nuovo canto di grazie, di lode, di gioia per la cosa più bella che l’uomo possa mai pensare.
Quando tacque e si sedette, un bimbo gli porse da bere, una fanciulla gli intrecciò dei fiori, un vecchio gli diede il suo bastone. E la festa cominciò, ma egli era troppo stanco per danzare.
Quando fu di nuovo il tempo dell’aratro e della semina ed egli volle lavorare con gli altri nel campo, quelli lo mandarono via perchè nei boschetti all’intorno cantasse a loro diletto. Ed egli non potendo lavorare come uno di loro, sedette triste e solo, e dal suo lungo meditare echeggiò una sola volta una canzone accorata.
Allora parti e viaggiò tutto il mondo, desiderando e, cercando la cosa più bella che aveva un giorno vista, e cantando sino a meravigliare chi l’udiva. Quando tornò nella dolce terra della sua giovinezza per riposarvi, ebbe per saluto i canti e i lieti suoni che aveva insegnati agli amici.
E come fu per questo cantore, cosi sarà sino alla fine dei tempi: il cantore trova l’alto cantico, la lode della cosa più bella che gli uomini possano concepire. Essi lavorano e gli fanno coro, egli v:à avanti e cerca, col fuoco in petto, desiderando un cantico ancor più alto. Tra i gìovani è il più animoso, il più vivace, tra i vecchi và solitario pensando che cosa sia più bello, se cantare come l’allodola lungi nella luce del sole, ovvero lavorare sulla terra con gli altri per gli altri. Ma bimbi e saggi esaltano lasua felicità.»
E Dedan guardò a lungo in silenzio il ragazzo fìnchè Reinbern si piegò da un lato e pose la testa in grembo alla fanciulla, piangendo piano in cuore.
Denkmar s’alzò, scrollò le orecchie e disse:
«Per quanto io non sappia cantare, posso pensare di cantare. Per questo so che Dedan ha ragione: molto può il ragazzo trovare nel canto, ma dovrà più a lungo e più lontano cercare la principessa. Il mio dovere è di pensare, di ponderare e di decidere dove essa può trovarsi. Addio, ragazzo, la mia ricerca ormai sarà diversa dalla tua e io pure devo andare avanti.»
«Avanti? sì, avanti! – gridò Tobia balzando ritto – abbiamo troppo poltrito qui. Vieni con me, ragazzo. Oppure se vuoi andar da solo, stà bene in ascolto mentre vai se odi il mio grido: non appena la troveremo; udrai il mio canto, accorri subito allora.»
«Io devo cercare da me» rispose Reinbern.
«Addio, allora! Addio!» gridarono Denkmar e Tobia.
E il gallo se ne andò impettito a grandi passi, guardando diritto innanzi a sè: l’asino lo segui calmo, muovendo la testa in su e in giù. Quando essi furono spariti dietro la cresta del colle, Alfrade che stava dondolando fra piccoli arbusti, chiamò a sè Reinbern con un cenno; egli era tre voIte più grande di lei, cosicchè essa dovette allungare il collo mentre gli sussurrava:
«Non aspettare, và! Puikebest, Kaka e io restiamo ancora con te.»
Gli occhi le brillavano di tenerezza. Reinbern alzò la testa, si mise le mani sui fianchi e gridò agli altri:
«Venite!»
La sua voce suonò fiera e salda, ma anche parve reprimere un sospiro. Dedan si ravvolse nel suo mantello, fece col flauto un piccolo gesto che voleva dire: non scordarti! salutò e tornò indietro.
Allora Reinbern, mentre dentro di sè cominciava a udire il gioco di quel soave suono che gli solo capiva, avanzò tra i calmi arboscelli, e gli altri lo seguirono, ultima la piccola silfide. Ma, là dove gli arboscelli diventarono più radi e il terreno andava giù, formando una valle stretta e profonda, Kaka d’un tratto fece un balzo e si arrestò davanti al ragazzo, appuntando le orecchie, con gli occhi spalancati e un fremito nel naso.
Dall’altro lato della valle si stendeva un gran bosco, i cui alberi possenti si ergevano alti e senza moto di fronde.
Reinbern allungò adagio adagio il dito vèrso un tronco che aveva soltanto un ramoscello basso, la fanciulla gli si fece più vicino, ed entrambi trattennero il respiro. Allora videro più in là, dietro altri alberi, una piccola cosa lucente che spariva. Reinbern corse veloce avanti, giù per la valle, con un tremolio di canto sulle labbra, e gli altri lo seguirono, Alfrade saltellando lieta.
Nota dat traduttore
I nomi di molti personaggi di «De berg van droomen» possono essere tradotti, con vantaggio per la spiegazione del loro senso simbolico. Così, ad esempio, «Puikebes» corrisponde a «fior fiore, quintessenza di cose buone» (composto di « puik.» sostantivo arcaico e « best » aggettivo superlativo, entrambi esprimenti l’idea di « ottimo»). Regel, il nome dello sbirro, significa regola, norma. Denkmar, evidentemente contratto da «denk-maar» vorrebbe dire «colui che non fà che pensare, il cogitabondo». Anche in Reinbern si può scorgere rappresentata l’idea di «puro» (rein) e quella di ragazzo (radice «baren» generare: danese «bar» appunto ragazzo).