Arthur van Schendel: Notturno, una novella del 1931

La novella di Arthur van Schendel: Notturno fu pubblicato in nederlandese con il titolo “Nachtmuziek” nel 1931. Appena due anni dopo fu tradotto da sua figlia Corinna e pubblicato in una rivista genovese di poesia.

 

Notturno

Or legate i cavalli nel buio del bosco dove stella non li sgomenti e la bianchezza loro non abbagli occhio mortale o farfalla o gufo. Testa a testa, il circolo chiudete. Le scintille spegnete; poi su code e criniere, prudenti e pronte, senza fruscio, le gualdrappe spiegate.

– Vedi? Intrecciato s’è il cerchio, Morgana.

– Su, balzando per rami e fogliame non destate uccelli, dalle treccie torcete rugiada, dalle dita stillate la luce; intorno i veli, diritti gli occhi. Prima che i pianeti abbiano percorso la loro curva, una voce umana chiamerà al di là della notte; un secolo chiamerà, lungo quanto il mignolo mio e tacerà la notte, senza altro suono che di crescere e perire. Ma se avanti quella voce si spigne e penetra in noi, bene addentro là dove i germi stan chiusi, se una di noi trasale per fame o per sete, e domanda di nascere, ascoltate allora la voce mia; suono v’è in noi che l’umano sorpassa. Zitte, senza tema, tutte all’erta, questa con quella come ognuno sa, due a due, tre a tre, contate il numero come avete imparato. Non tremate, mie piccole, mie non ancor nate, ecco lontano il chiarore.

Lucentezza attutita, un uomo viene guizzando come pesce dal fondo; verde è il suo alone, adesso, verde diventa la notte. Ma a noi il bianco, il bianco ai nostri cavalli. Ecco: osservate, un gigante in armatura scagliosa, esita, si smarrisce, ora si ritrae, fugge, atterrito dal tronco luccicante. Se pietà o  misericordia fosse in noi, doni celesti a tutto ciò che respira, rintronerebbe il bosco di pianti e di lamenti per il tormento che qui si sta soffrendo. Non spingete, non chiedete: curiosità ci porta sventura. Ecco: si ferma, in agguato ascolta, stupito del proprio splendore. Ora s’avanza veloce e furtivo – rifulgono i tronchi – verde animale strisciante, ingordo di preda. Nei vostri veli, compagne, attendete la voce, grande più che di leone assetato o di frenetico cane. Campanella mattutina, quale nuova è là dentro?

– Ella dorme, Morgana, senza principio nè fine.

– Tranquille, amiche: quiete restate, come i cavalli. Là, sotto l’abete, dallo smeraldo, giunge ora la voce.

– Io chiamo, cerco, povero sotitario.

– Una piccola voce, temuta più d’una grande. Rispondiamo, ognuna a nostra volta, dieci a dieci, e altro non occorre che l’arpa, il piffero e il violino.

– Chi chiama? Olà, chi cerca nella notte? Olà, rispondi! Buona gente è qui, per lo sperduto che è buono. Apprèssati dove il buio scintilla alla vista e suona il tintinnìo.

– Infelice invoco, io che cerco.

– Viandante, apprèssati, va dove l’oscurità si fa più oscura, dove verde diventa e lucente, e verde ancora e buia, giù sotto le foglie. Non chiamare forte, non chiamare un nome; ma chiedi, chiedi ciò che cerchi, tu re dei viventi. Balsamo e cinguettìi abbiamo per risposta.

– Lei voglio, lei cerco per tutto il mondo, lei chiamo anche al di là dei limiti del giorno e della notte.

– Adagio intona, o piffero, un canto antico per rammentar qualcosa; l’arpa accanto: in fondo il violino.

– Piccolo è il paese dove in gioventù abitai: una collina e intorno l’acqua con mormorìo d’alberi e d’onde. Una donna mi aveva portato e dimenticato là, nessuno vedevo con cui giocare, fuorchè l’acqua, la sabbia, foglie e coccole rosse e gialle. Ma nelle grotte, nelle verdi grotte giù presso il mare, imparai a ridere e zufolare. Buccine e conchiglie trovai che musica chiamavan dall’orizzonte, alta o bassa; e una conchiglia v’era, dentellata e bianca, che una volta s’aprì al mattino e ne usci colei che io non scordai più, colei che soltanto era fruscio: e via volò, nube senza nome, per sempre innominata. Un tintinnìo fugace, un riso al crepuscolo, un rintocco nel buio, uno stormire di foglie: chiedete il suo nome al pipistrello o all’usignuolo.

– Suonatore, dove sei? Non spezzarmi il cuore, dimmi che hai visto, dimmi dov’è.

– Non appressarti, forestiero, fermati! Il tuo cuore sa d’amaro, il tuo colore è verde, vecchio ti fa il cercare.

– Dimmi dov’è. Ho sentito di una figlia di re, senza nome, che dorme e aspetta che io la desti. Dimmi dove posso trovarla.

– Campanella mattutina, quale nuova è là dentro?

– Ella dorme, Morgana, ma il suo petto già trema.

– Sussurra tra le corde una frescura, arpa, una voce della nostra foresta.

– Querce e faggi, abeti e pini, felci e muschio, poi, sull’orlo, betulle trasparenti e pioppi. Chi vide tutte le foglie, chi conosce tutti i frutti, tutti i semi? La savia cingallegra da Merlino istruita, l’operoso picchio che indaga nelle fessure, invano sono in cerca di segreti. Ciò che respira, vive e brama, talvolta è molto sciocco, vuol scoprir tutto e tutto sapere, non dubita dell’esistenza di cosa che teme l’esser conosciuta dai viventi. Alberi e felci l’un per l’altro hanno segreti, in tronchi e fusti oscuramente riposti, che con loro in polvere si sfanno; nessuno li conoscerà, nessuno intenderà il loro stormire nella brezza, il loro tumulto nella bufera.

Mortale, non sai dunque che chi dorme, una figura vede più radiosa nel sonno di quando appare nello splendore del sole? Udisti di una che dorme e attende il risveglio da voce umana? Non è principessa, non figlia di sovrano: Stellina è più di lei, è sorella, di stelle e segnata d’un nome. Qui la condusse a lieve sonno, tra il fruscio dei rami custode, il genio silvano. Soltanto l’occhio dell’Origine vede ciò che essa vede. Chi il niveo silenzio osa disturbare, chi toccare un santo segreto? Vòltati, forestiero, vòlta, innanzi ad un abisso sei, l’ardore del tuo sguardo troppo avanti si lancia: e ci scotta. Bianche siamo e delicate, noi che vegliamo, ma unghiate siamo, qualora la brama osi violare il sonno sacro. Ristoro ti dà il respiro degli alberi, bevi e rinfrèscati, ma fuggi, fuggi l’illusione.

– Arso dal fuoco devo avanzare; il desìo arretrare non sa: nell’illusione lacciàtemi svanire, in essa abbandonàtemi sino alla fine, finchè sia consunto il volere, il mio volere verso di lei.

– Campanella mattutina, presto, accosta i veli.

– Ella dorme, Morgana, ma sembra che sussurri: con bàttito di cuore.

– Suona, violino, la consolante necessità, redìmilo; e càntagli il dono del pianto.

– Narrare devo degli sperduti, qua e là per boschi e paludi, cercatori che fissarono la fiamma seguìta finchè il crepuscolo giunse, e la sera, con sospiro e singulto di vento? Solo un uccello, alto in cielo, talvolta le ossa di tese mani distingue; in volo sorpassa i luoghi dove soltanto rimase ciò che scolora alla pioggia ed al sole, da volontà e desiderio abbandonato. Sicuro è il guadagno per chi alla fiera si reca, e niente lo stimano i cercatori; ma riflettano un poco se giova penare in cerca di quello che mai non si trova, se a nulla, a nulla, aspirare convenga, Triste è vedere i boccioli morsi dal verme che distrugge, triste il marcire in germe dei mille e mille semi del faggio, triste vedere inmumeri figli di uomini che bramano senza sopportare, che chiamano, afferrano e insistono, senza udire la voce dal fondo, la voce dell’Origine.

Facile sembra loro dei boccioli il formarci e dei semi; ma dell’acre e dell’acerbo, del moto che spinge e produce, nulla sanno.

Guarda nel cuore tuo, tu che cerchi gli enigmi; a lungo errerai tra selve e rovi finchè giungerai ad un lago, nero, insondabile. Là resta ed attendi. Ascolta mormorare quanto è cara la pena, quanto soave il dolore, ristoratore il pianto. Chi questo non udì: il purificato suono del  proprio affanno incessante, chi mai non pianse senza conoscerne causa, e sospirò l’ultima delle lagrime, colui come cieco a tastoni s’aggira nell’orto fiorito dove misurata gli è l’ora di sole, Alla tua gente torna; gelida si fa la notte, venire io odo il mattino. Se troppo hai violento il desiderio, troppo sciocco il pensiero, abbi fiducia nell’umor del tuo occhio. Lacrime ne cadranno senza fine se un giorno il tuo desiderio s’appaghi e il cuore assopito si desti all’incendio struggente del sangue. Ascendi sui venti dell’amore, sublime di pietà diventa l’amante.

– Lagrime ho più di quante io sappia, lagrime sono il mio destino; sempre cercando non ho mai trovato, sempre in modi diversi debbo andare. Se un mistero è quello che io voglio, un’anima sopra la mia, se esaudirmi ella non può, di nuovo camminero, vagando, cercando.

– Campanella mattutino, quale nuova?

– Ella dorme, Morgana, con una lagrima nell’occhio.

– Fuggire dobbiamo, ella nascerà per cercare e non trovare. Il grido dell’uomo è come un sasso caduto nel fondo del lago buio, e chi potrà sapere dove giunga l’increspatura?

– Mortale, ascolta: sono io che parlo, Morgana, sorella di Merlino e custode di germi, di steli, e di semi. Un mistero è in ogni vivente che per molte estati ed inverni crescere deve, prima di svelare un’unica particella, un piccolo colore, un odore, un suono; e più d’uno che alla terra ritorna, del mistero il nucleo neppure sospetta. Poco fuori si manifesterà, ma megliò è aspettare – con palpebre basse, di notte presso una candela – ciò che senza il tuo richiamo da te stesso nascerà. Soltanto quello che vuol nascere, per quanto piccolo all’occhio avrà forza di costruire il tempio del mondo. Va, aspetta, un’ora, un secolo, aperte le mani, pronto a riceverla ogni mimuto: poichè fra gli innumeri minuti uno solo ne esiste per la venuta di lei. Spegni il tuo inutile ardore, non turbare il nostro gioco.

– Con lagrime, vecchie e nuove, ancora devo errare.

– Guardate lo stolto che s’illude di essere quello che era; fuoco egli è venuto, acqua se ne torna. L’alone verde svanisce, nell’ombra egli tasta da tronco a tronco. Morgana, spezza il cerchio nostro: nell’occhio di lei riluce uno splendore.

– Piegate le gualdrappe, presto a cavallo, avanti con la notte. Qui si sveglia una che molto cercherà, lontano è l’altro.

Traduzione di Corinna van Schendel

Note a Arthur van Schendel: Notturno, una novella del 1931

  • Arthur van Schendel, Notturno, in: Circoli. Rivista di poesia. Genova, anno III, numero 5, pp. 37-48.
  • La traduzione è preceduta da una brevissima nota, presumibilmente della redazione :
    • Arthur van Schendel: Notturno, una novella del 1931Presentare questo scrittore come il più sìgnificativo e il più grande della Olanda di oggi, il pìù veramente degno di fama oltre i confini della sua piccola patria, servirebbe soltanto a situarlo nel panorama europeo. Molto più vale il fatto che, ormai prossimo alla sessantina, egli prosegue con giovanile vigore nella sua opera creativa, che già conta circa trenta volumi. Romanziere e novellatore di classica nobiltà e di umanissimo significato, grande amico della nostra Italia nel suo passato e nel suo presente, appare qui – e il lirico brano è di qualche anno fa – poeta di nordiche fantasie, interprete di germanici sogni aleggianti nei boschi delle Nederlanden e filtrati dal sole discreto di una malinconìca pensosità. Un unico ritmo pervade sicuro questa prosa; non sarà diffìcile per il lettore percepirlo e seguirlo nella versione curata dalla figlia dell’autore, ottima conoscitrice della lingua e della letteratura nostra.
  • Vedere qui una pagina sull’Autore.
  • L’Enciclopedia Italiana online dedica un breve testo allo scrittore

 

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