August Vermeylen Ahasvero sulla via del cielo

Le pagine di August Vermeylen Ahasvero sulla via del cielo sono le prime del terzo capitolo del suo primo romanzo ‘L’ebreo errante’. Fu pubblicato col titolo De wandelende Jood nel 1906. August Vermeylen (1972-1945) pubblicò solo due romanzi nella sua vita. Lo scrittore era nato a Bruxelles e di lingua madre nederlandese. Insegnava storia dell’arte, ma si occupò soprattutto di letteratura. Diventò professore universitario di lingua e letteratura nederlandese prima a Bruxelles e a Gand poi.

August Vermeylen: Ahasvero sulla via del cielo

Ahasvero sulla via del cielo

In una radura di quel bosco viveva un vecchio eremita: la sua celluzza era cosi piccola che un coniglio l’avrebbe misurata in quattro salti. Il santo uomo dormiva su un letto di foglie secche. Si cuoceva da solo il suo pane di segale, coltivava un po’ di legumi, teneva una capra e una dozzina di pulcini. Coi bei canestrelli ch’egli sapeva intrecciare si procurava di tanto in tanto i suoi piccoli agi da un villaggio lontano, e talvolta anche dei pellegrini gli portavano qualche buon boccone comprato alla fiera della sagra, come trippe bianche e nere con orecchie e zampe. Ma la sua anima e ogni suo atto erano sempre rivolti soltanto a Dio. Ammirarlo e lodarlo in tutte le sue opere, smarrirsi nella contemplazione della sua infinita bontà – questo lo occupava, questa era la sua vita.

Ora, un mattino per tempo. ch’egli era già in giro, a rimirarsi con riconoscente meraviglia il miracolo di tutti i giorni, la mattutina chiarità del sole che giocava per l’umido fogliame, gli avvenne di trovare un uomo che giaceva bocconi, le braccia tese, e gemeva fioco. L’eremita andò a prendere acqua in un rigagnolo, lavò il viso allo straniero, e quegli parve finalmente svegliarsi come da un sogno, con lo sguardo smarrito. Non capi ciò che il vecchio gli diceva, e si lasciò condurre barcolloni sino al letto di foglie, sul quale s’abbattè esausto.

Ahasvero scottava di febbre, e le visioni gli abbuiavano il.ricordo; l’inferno ancora chiamava dietro di lui, ed egli si aggrappava stretto al braccio dell’eremita, per non cadere in quell’orrendo abisso come un sasso in una voragine. Il vecchio, per calmarlo, gli picchiava piano sulle mani, come si fa coi bambini, ringraziando in cuor suo Iddio, che forse lo aveva scelto come strumento per la salvezza di un povero peccatore.

Ogni volta che Ahasvero apriva gli occhi, si vedeva subito vicino il buon vecchio, e il sorriso di quel volto rugoso era cosi schietto, che Ahasvero pure sorrideva fievolmente – egli sentiva una debolezza estrema…

Quel giorno non fecero quasi parola. A tratti Ahasvero domandava da bere, la fresca acqua di fonte gli ristorava per un momento il cuore. Quando la febbre gli dava un po’ di tregua guardava semi-incosciente i quieti gesti dell’eremita, che faceva un decotto di erbe pel malato o si cuoceva la pappa o sommesso pregava sulle grosse pallottole del suo rosario.

Ma verso sera Ahasvero provò un’angoscia mortale: la misteriosa vita della cupa selva ricominciò a folleggiare di spettri che gli ululavano addosso. Soltanto quando sentì che l’eremita lo teneva per la mano riuscì ad aver ragione dell’incubo, e al vedere curva su di lui quella chiara figura, gli parve a un tratto di aver davanti sua madre. Cosi entrò dolcemente in sonno.

Quando il gallo lo svegliò, cantando, il bosco, dalla porta aperta, -era tutto azzurrino della prima luce; per la piccola finestra un raggio rosato scivolava nella cella, e fuori nella frescura era un pigolìo e un gorgheggiare di cingallegre e merli; persino il vecchio eremita, Ahasvero lo udiva cantare qualcosa come una preghiera, sopra un motivo riposato e uguale che echeggiava con grazia infantile.

Cosi Ahasvero rimase un momento in dormiveglia, mentre i ricordi di quando era ‘bambìno gli si levavano in cuore di loro moto; la mamma lo conduceva alla chiesa. dove egli cantava col coro; nella chiesa c’erano nuvole odorose d’incenso, e bei lumìcìni che ardevano tutto il giorno ecose d’oro che brillavano nella penombra, La mamma era morta presto, aveva sempre un aspetto triste… Egli richiuse gli occhi, e sognò di quell’incenso e di quel canto, finchè non entrò l’eremita adagio adagio. Questi parlò con voce pacata e gli portò latte e pane ed uova, cose che fecero un gran bene ad Ahasvero, poichè egli sentiva di nuovo l’avida vita del suo corpo.

« Voglio vivere… » disse con una domanda nello sguardo e il vecchio rispose: « Dio ti guarirà».

Ahasvero stesso fu sgomento di avere la voce cosi fievole. « Dio… » mormorò, e subito tacque all’udire quella parola dalle proprie labbra.

E siccome ora si era messo seduto, guardando intorno scorse presso la finestrina un ceppo di legno sul quale un crocifisso allargava le sue braccia, e vicino un libro nero e un teschio. Ahasvero considerò a lungo quegli oggetti, con tormentosa attenzione. Egli non capiva più che cosa succedesse in lui, pareva una misteriosa paura che esitasse ma ben sentiva che egli ormai giaceva là come un bimbo, che egli più non poteva odiare, che il suo orgoglio era spezzato, e di ciò provava un male soave, soave, come di una ferita da cui il suo sangue stillasse invisibile.

« Non chiedetemi chi sono… non chiedetemi nulla…»

Si lasciò ricadere indietro, e le sue scarne mani pendevano inerti; e in petto gli bruciava quella dolce pena.

« Dio ti ha mandato a me» disse il vecchio calmo e grave.

Ahasvero sorrise tristemente, e tacque.

Quel giorno passeggiò con l’eremita per il bosco. Nell’aria  vi era già la soavità dell’autunno; sulle ragnatele brillava una nebbia sottile, e la luce del sole aveva un biondo rossore che ogni cosa faceva bella come un bel ricordo. « lo vivo! » questo soltanto pensava Ahasvero, con una specie di meraviglia e semplice gioia. Sentiva: sotto i piedi il terreno, guardava il puro tremolio della luce tra gli alberi pieni di uccelli, aspirava il profumo dei lamponi, e tutto ciò era vita, vita – ma, poteva egli toccarla? non sarebbe d’un tratto svanita in un sogno? E ascoltava la voce serena affettuosa del vecchio, siccome un tempo le fiabe della mamma. Quanti anni erano passati? La sua vita era dunque stata una sola lunga malattia, da cui soltanto ora egli lentamente ‘guariva?

Verso sera erano seduti a fianco sulla cima di un nudo poggio, donde, guardando al di sopra delle vette degli alberi, si vedevano tutti i boschi stendersi in grandi ondulazioni che alla fine si confondevano diventando sempre più azzurre sino alla lontananza purpurea, dove il sole scendeva a morte. Laggiù sull’austero volto del bosco, cinto di silenzio, lucevano ancora i tardi raggi. Stando cosìa lato dell’eremita, tutti i mali, i terrori erano sbanditi, ma, quanto più quel mondo sussurrava pace,’ quanto più tenero si faceva nell’alto il cielo, tanto più Ahasvero riprovava in cuore la vecchia inquietudine, sentiva la ferita al cuore bruciare, intollerabilmente-soave nella fuggitiva luce della sera.

Tacquero a lungo. La figura dell’eremita era una immobile chiarità nel lieve crepuscolo. Il vecchio chiuse gli occhi per più profondamente contemplare dentro di sè la durevole bellezza di tutto ciò che aveva veduto, e disse a mezza voce: « Dio! ».

Quell’unica parola era come la voce del grande silenzio, in mezzo al quale essi stavano, perduti come in un mare.

« L’ho cercato per tanto tempo… » parlò Ahasvero breve e cupo, con la testa china verso il suolo.

« Che altro mai avresti potuto cercare? » chiese calmo .il vecchio. .« Ogni cosa che gli uomini fanno, è un moto verso Dio. Ma essi non sanno, e giacciono nel limo »,

« Io non l’ho mai trovato… ».

« Se tu soltanto supponessi che Dio esiste, non troveresti altro. Egli è la luce ineffabile. Come ogni fiamma balza verso l’alto, così la tua anima non può che salire verso la luce».

« Ma se tutto non fosse che sogno… ».

« Tutto è sogno, eccetto Lui solo».

La silenziosa marea dell’ombra si alzava lentamente: i boschi erano tutti neri, contro il cielo d’opale. Ed Ahasvero sentì, penando come non mai, che ciò che bruciava in lui, bruciava eterno, non era purtroppo sogno.

I giorni che seguirono egli vagò ancora pei dintorni, sospinto dalla sua inquietudine. L’immagine di quella sera restava in lui viva, in un con le parole dell’eremita: quei boschi neri, quel cielo luminoso curvato sul mondo… Là egli aveva d’un tratto capito chiaramente che cosa egli fosse; la Luce Ineffabile! questa parola era caduta nel più profondo del suo essere, e… ora che era stata proferita, egli la trovava così semplice, come se da lungo tempo l’avesse avuta dentro di sè, ignara. Non era in fondo questo, ch’egli aveva desiderato? Ch’egli ancora desiderava, se la fiamma di nuovo balzava in alto, nè gli era riuscito dispegnerlanegliabissi dellamateria!…

Oh,quegli abissi!… Da che era stato. laggiù, egli sentiva più che mai la sua impotenza, sentiva di essere un piccolo punto meschino, perduto nell’incompresa immensità: tutta la sua vita anteriore gli pareva raggrinzita a un nonnulla, al fugace rumore di un passo nelle foglie secche, innanzi a quell’Uno’ veduto dall’eremita. Perchè avrebbe dovuto ancora negarlo, buttarsi giù dietro una pietra? quell’Uno egli lo cercava, lo cercava!

Ma… e se non fosse esistito?…

Lacerato dal dubbio stette a lungo, con la testa fra le mani, sommerso in una notte orribile, fìnchè di nuovo in lui albeggiò un chiarore, e quel chiarore somigliava auno sguardo ch’egli ben conosceva:

« Qualcosa di quella Luce era negli occhi di Cristo… » pensè trasognato.

Corse pel bosco incespicando, chiamando: « Dio! Dio! » come se ciè potesse servire. S’finito rigiacque sull’erba torcendosi le mani, chiamando: « Dio! Diol »; ristette sul poggio aperto e, ritto, la testa all’indietro, gli occhi chiusi, chiamò: ( Dio! Diol »-‘ma fu immutabilmente, eternamente solo.

Segui con lo sguardo un’allodola che cantando saliva saliva nell’aria, tanto alto che spari nello spazio radioso. « Dovrà pu’r tosto tornare al suolo! » pensò ridendo Ahasvero. Anche i suoi pensieri volavano cosi, ma essi erano come uccelli ciechi che salgono verso la luce e poi, fulminati dalla loro stessa disperazione, roteando sulle ali arse ripiombano giù nelle tenebre.

Persino nel chiaro giorno tutte le cose della terra gli parevano buie, come in quella sera: tra i vecchi alberi del bosco per lui filtrava soltanto una fioca luce di sotterraneo.

A tratti pensava: «I miei piedi sono stati nella morte, le mie mani hanno sentito la morte, io non posso nulla, io non sono nulla, prendimi, o Dio, nella tua immensità! ». E talora, siccome il sangue in lui s’era di nuovo rinvigorito, si levava anche la voce d’un tempo: « io non trasgredirò »; allora errava ostinatamente per la solitudine dei boschi sino a sera, quando esausto e affamato riparava nella celluzza, e si sedeva quieto vicino all’eremita. Dicevano poche parole, ma Ahasvero, si sentiva meglio e più sicuro. Perchè, guardando la calma figura del vecchio, vi vedeva una certezza ch’egli non capiva, ma pure subiva.

E, Ahasvero non credeva, tuttavia qualcosa gli era strisciato dentro, ch’egli stesso non sapeva bene, qualcosa che avrebbe bruciato sempre più chiaro nella brace della sua anima squallida e buia: la speranza – la speranza che anch’egli un giorno avrebbe trovato la sua pace forse… […]

Note a August Vermeylen Ahasvero sulla via del cielo

  • Le pagine sono state tradotte da Giacomo Prampolini e pubblicate nel 1927.
  • Su August Vermeylen è disponibile una pagina wikipedia e qui una pagina sull’Enciclopedia Italiana.
  • La leggenda dell’ebreo errante ispirò molti scrittori. Inoltre esiste una vasta letteratura storica-critica.
  • August Vermeylen scrisse nel 1932 il breve lemma ‘Guido Gezelle’, poeta fiammiga,  per l’Enciclopedia Italiana. Ecco il link. Nel 1934 pubblicò nella stessa sede il lemma Jacob van Maerlant.
  • Per altri testi di scrittori olandese tradotti vedere questa pagina.

 

Couperus La potenza occulta. Frammento di proza

Famoso il romanzo e non meno celebre il suo autore: Louis Couperus. Riproponiamo di Couperus La potenza occulta. Il testo è una selezione dall’omonimo romanzo dal titolo De stille kracht. L’opera si inserisce nella tradizione letteraria che ha come tema principale la vita nell’allora colonia delle Indie orientali del Regno dei Paesi Bassi. Per motivi di leggibilità ho diviso il testo in cinque paragrafi.

Couperus La potenza occulta
Copertina della prima edizione.

La potenza occulta

1

A Van Oudijck, nella vita tutto era andato generalmente bene. Di semplice famiglia olandese priva di denaro, la sua giovinezza era stata una scuola dura, ma non spietata, di serietà precoce; aveva avuto bisogno di mettersi presto al lavoro; aveva avuto la precoce necessità di guardare al futuro, alla carriera, al posto onorevole che, il più presto possibile, avrebbe dovuto occupare tra i suoi simili. I suoi anni di studi indologici a Delft erano stati felici abbastanza per fargli ricordare che era stato giovane e, poiché aveva anche preso parte a una mascherata, pensava addirittura di avere avuto una giovinezza piuttosto sfrenata e di avere sperperato un bel po’ di denaro.

Il suo carattere era un misto di quieta solidità olandese, di ragionevolezza pratica e di una certa dose di serietà di vita piuttosto malinconica e incolore: abituato a cercarsi un posto onorevole tra gli uomini, la sua ambizione si era sviluppata ritmicamente e continuamente in un misurato desiderio di progredire, che però si era svolto soltanto lungo quella linea cui il suo occhio si era sempre abituato a guardare: la linea gerarchica dell’Amministrazione Statale. Tutto gli era sempre riuscito: avendo grandi capacità, era ben considerato.

Fu assistente-residente prima della maggior parte degli altri e poi fu un giovane residente; ed invero, la sua ambizione era appagata ora che la sua posizione autorevole armonizzava con la sua natura, il cui desiderio di dominio era andato di pari passo con la sua ambizione.

2

Era effettivamente contento, adesso, e sebbene il suo sguardo si spingesse ancora assai più lontano e vedesse balenare dinnanzi a sé un seggio nel Consiglio delle Indie e addirittura il trono a Buitenzorg (c’erano dei giorni in cui egli serio e soddisfatto asseriva che diventare residente di prima classe, oltre al fatto di avere una pensione più alta, comportava soltanto qualche vantaggio a Semarang e Surabaia, dato che le Terre dei Sultani erano piuttosto incomode e Batavia, poi, aveva una posizione del tutto speciale e quasi di minorità in mezzo a tanti alti funzionari, Consiglieri delle Indie e Direttori) … E anche, quindi, se il suo sguardo si spingeva tanto lontano, il suo senso pratico della misura poteva essere del tutto soddisfatto se gli avessero potuto predire che sarebbe morto da residente di Labuwangi.

Amava la sua regione, amava le Indie; non avvertiva mai desiderio dell’Olanda, né desiderava che si ostentasse la cultura europea: non aveva di queste brame, pur restando egli stesso sempre molto Olandese e soprattutto odiando tutto quello che era mezzo-sangue. Era la contraddizione del suo carattere, questa, perché si era scelto la sua prima moglie (una nonna) proprio per amore e i suoi figli, nei quali scorreva sangue indiano (Doddy lo dimostrava nell’aspetto esteriore, Theo invece nel carattere, mentre Ricus e René erano assolutamente due piccoli sinjo) gli erano cari per vero e proprio sentimento paterno, con tutto quel che di tenero e di sentimentale sonnecchiava in fondo al suo essere: bisogno di dare molto e di ricevere nell’ambito della sua vita familiare.

3

Lentamente, questo bisogno si era allargato all’ambito della sua regione: in lui era presente un certo orgoglio paterno per i suoi assistenti-residenti e i suoi controllori, tra i quali era popolare e i quali lo amavano; e soltanto una volta, nei sei anni da che era residente di Labuwangi, non era andato d’accordo con un controllore, che era appunto di colore, e che, dopo avere avuto una certa dose di pazienza con lui e con se stesso, aveva fatto trasferire, come usava dire. Ed era orgoglioso di essere amato tra i suoi funzionari, nonostante la sua autorità severa e il suo severo ritmo di lavoro.

A maggior ragione si doleva della sorda e segreta ostilità con il Reggente, il suo “fratello minore” secondo i titoli in uso a Giava, nel quale egli avrebbe effettivamente voluto trovare il fratello minore, che sotto di lui, il fratello maggiore, governava il suo popolo giavanese. Gli dispiaceva di essere capitato così e pensava ad altri Reggenti; non soltanto al padre di questo, il nobile Pangéran, ma anche ad altri che conosceva: il Reggente di D., colto, che parlava e scriveva un ottimo olandese, autore di chiari articoli su giornali e riviste; al Reggente di S., giovane, un po’ facilone e vanesio, ma molto ricco e benefico, considerato nella cerchia europea quasi un dandy, galante con le signore.

4

Perché mai a lui, a Labuwangi, doveva capitare di incontrare un tipo così invidioso, cheto e fanatico di wajang? con la sua fama di santo e di mago, stupidamente deificato dal popolo, del cui benessere quello ben poco si curava, mentre veniva adorato soltanto per il prestigio del suo nome antico (e in lui egli avvertiva sempre un’opposizione mai espressa e tuttavia sempre così palpabile sotto la sua gelida correttezza!). E poi c’era, a Ngadjiwa, il fratello, l’accanito giocatore di dadi – ma perché doveva essere capitato così, lui, con i suoi Reggenti?

Van Oudijck era di umor nero. Era abituato ormai a ricevere ogni tanto e con una certa regolarità delle lettere anonime con velenose calunnie, ora a carico di un residente-assistente, ora su un controllore. Talvolta insozzavano i capi Indiani, talvolta la sua stessa famiglia; talora sotto forma di amichevoli ammonimenti e talora invece con l’odiosa gioia del danno che arrecavano ammantata con la veste del volergli aprire gli occhi davanti alle mancanze dei suoi funzionari o ai misfatti di sua moglie. Ci era ormai tanto abituato, che non contava più le lettere di quel genere: le leggeva appena dandovi una scorsa e le strappava con noncuranza. Abituato a giudicare da solo, non gli facevano alcuna impressione quegli invidiosi ammonimenti, anche se come serpenti sibilanti essi alzavano la testa tra tutte le lettere che la posta quotidianamente gli portava.

5

Quanto a sua moglie, era talmente cieco nei suoi confronti: egli aveva continuato a vedere Leonie calma e tranquilla, avvolta nella sua sorridente imperturbabilità, entro la chiusa tela della affettuosità familiare che lei era riuscita a costruire attorno a sé – nel vuoto dei continui ricevimenti di quella residenza così piena di sedie e divani –, che egli non avrebbe mai potuto credere alla benché minima parte di quelle calunnie. Lui non gliene parlava mai. Teneva a sua moglie; l’amava e poiché quando era in compagnia di altri la vedeva quasi sempre silenziosa, giacché ella non era mai civetta né si faceva corteggiare, egli non gettava mai uno sguardo in quell’abisso perverso che era la sua anima.

A casa, aveva quella completa cecità che tanto spesso hanno proprio gli uomini valenti e abili nelle relazioni di lavoro, abituati a guardar lontano nell’ampia prospettiva del loro campo d’azione, ma alquanto miopi in casa; usi ad analizzare l’insieme delle cose e non i dettagli di un’anima; a basare la loro conoscenza degli esseri umani su uno schema e a dividere gli uomini in tipi, come nella suddivisione dei ruoli in una commedia antiquata.

Uomini che afferrano immediatamente le capacità di lavoro dei loro sottoposti, ma che non vengono mai toccati da qualche cosa dell’intricato complesso, come confusi arabeschi, come tralci inselvatichiti dell’interno dell’anima dei loro familiari; che guardano sempre al di sopra delle loro teste, pensando sempre oltre le proprie parole e senza alcun interesse per quell’arcobaleno di emozioni e odio e invidia e vita e amore che brilla proprio davanti ai loro stessi occhi.

Note a Couperus La potenza occulta. Frammento di proza

  • La selezione è stata tradotto da G. Antonelli e fa parte dell’antologia edita da: Mor, et. al., pp. 282-284. Riferimenti bibliografici qui.
  • Louis Couperus, De stille kracht. Amsterdam: L.J. Veen, 1900, 212 pp. Testo integrale in nderlandese è disponibile sul sito db.nl
  • Il romanzo fu completato tra ottobre 1899 e febbraio 1900 durante il soggiorno dello scrittore a Batavia.

 

 

Poesie di Jan-Jacob Slauerhoff tradotte in italiano

E nel 1947 che Giacomo Prampolini pubblica due poesie di Jan-Jacob Slauerhoff in una traduzione italiana. Ben 22 anni passano prima dell’arrivo di altri tre componimenti tradotti e raccolti in un fiorileggio del 1959. Dovevano passare 70 lunghi anni prima che una raccolta di ben 121 poesie vide la luce in Italia nel 2019. Tre anni dopo – nel 2022 – troviamo quattro poesie di Slauerhoff nella raccolta che Giorgio Faggin dedica a poeti olandese del Novecento.

Le tre poesie riportate in questa pagina sono state ricuperate dalla raccolta Poesia olandese contemporanea del 1959. I componimenti sono: ‘Canto autunnale del marinaio’, ‘Arcadi’ e ‘Passato’, seguiti dalle versioni originali.

Canto autunnale del marinaio

L’impeto di folate turbinanti
Distrugge i fiori indifesi
E spoglia le siepi che gemono:
I laghi chiari s’intorbidano.

Avessi un piccolo podere
Con bambini che giocano fuori
Per indugiare dietro i vetri
Umidi di pioggia, felice senza pensieri.

Dopo aver tanto vagato
E scrutato scontroso il mare eterno,
Dopo il lungo tumulto dei pericoli:
La quiete di un luogo tranquillo.

Ma è stato diverso,
I miei compagni sono morti prima
O dirottati in altra solitudine.
lo incagliato in una città morta,
Passeggio in un sentiero solitario,
Familiare con tombe abbandonate
Circondate da foglie moribonde.

Arcadia

Indolente si sveste tra il fogliame,
Trema in estasi e brama un rapitore,
Pensa a ninfe e fauni.

Ninfe che si davano a fauni
Con delizia, nude tra il fogliame,
Spiate da streghe sogghignanti.

L’acqua increspata la riflette morbida:
Le ondette del rio poco profondo
Fanno guerriglia ai suoi piccoli piedi.

Su un masso il marito la guarda
Giocare, si rode dalla rabbia
E succhia il suo manilla.

Passato

Penso all’isola dove non approderò più:
– Quasi invisibile dal mare, tanto è stretta;
Il piccolo villaggio che non nomino
Basso dietro la diga, sotto gli alberi –

E alla donna che non vedrò più:
Ero con lei una notte di tempesta,
Il vento notturno batteva alla vecchia finestra;
Giaceva molto calma e mormorava un nome
Che non rammento, ma che porto in tutti i miei sogni.

Le versioni in olandese

Zeemans Herfstlied

‘t Geweld van de wervelende vlagen
Verwoest de weerlooze bloemen
En plundert de steunende hagen;
De blanke meren vertroeblen.

Had ik nu een needrige hoeve
En kinderen spelende buiten,
Om aan de beregende ruiten
Gedachtloos gelukkig te toeven.

Na ‘t zwerven en stuursche staren
Over de eeuwige zee,
Na ‘t eindloos tumult van gevaren:
De stilt’ van een vredige stee. –

Maar het is anders geworden,
Mijn makkers zijn vroeger gestorven
Of in ander alleen-zijn verzworven.
Ik strandde in een doode stad,
Bewandel een eenzaam pad,
Vertrouwd met vergeten graven,
Omspeeld door zieltogende blaren.

Verleden

Ik denk aan ‘t eiland waar ‘k niet meer zal komen:
–’t Is bijna niet uit zee te zien, zoo smal;
Het kleine dorp dat ik niet noemen zal
Ligt diep achter den dijk onder zijn boomen –

En aan de vrouw bij wie ‘k niet meer zal komen:
Met haar lag ik één stormigen nacht tezaam,
De onrustige nachtwind rukte aan ‘t oude raam;
Zij lag zeer stil en mompelde een naam
Dien ‘k niet meer weet, maar draag in al mijn droomen.

Arcadia

Langzaam kleedt zij zich uit in het loover,
Rilt verrukt en verlangt een roover,
Denkt aan nimfen en faunen.

Nimfen die zich genotvol over-
Gaven aan faunen, naakt onder loover,
Begrijnsd door oude alraunen.

‘t Rimpelend water spiegelt haar week:
Met haar voetjes in de ondiepe beek
Voeren de golfjes guerilla.

Op een steen zit haar echtgenoot,
Ziet haar spelen, ergert zich dood
En zuigt op zijn manilla.

Poesie di Jan-Jacob Slauerhoff

Note a Poesie di Jan-Jacob Slauerhoff tradotte in italiano

  • Poesia olandese contemporanea. A cura di Gerda van Woudenberg e Francesco Nicosia. Milano: Schwartz, 1959, pp. 128 – 133.
  • Per altri scrittori e scrittrici olandesi tradotti in italiano vedere qui.
  • Esiste una pagina wikipedia dedicata allo scrittore.

 

L’Uomo di Nazareth biografia di Gesù: Arthur van Schendel

L'Uomo di Nazareth biografia di Gesù: Arthur van Schendel
Ed. 1935

Il seguente testo L’Uomo di Nazareth biografia Gesù fa parte del quinto capitolo del volume che Arthur van Schendel scrisse tra l’autunno del 1914 en il 1915. Nella primavera del 1914 lo scrittore si recò in Palestina per studi preparativi alla scrittura dell’opera, la cui prima edizione uscì nel 1916. Il titolo originale è De mens van Nazareth.

 

[…]

E, finita la lieta festa, finito il sabato, i pellegrini levarono le loro tende e a schiere partirono per le terre ove dimoravano. Quelli di Nazareth si diressero verso nord seguendo la strada per la quale erano venuti, e quando dopo un giorno di viaggio si riposarono, sorse uno a chiedere del figlio del falegname.

Giuseppe e la madre si misero a chiamarlo e a cercarlo tra i parenti e tra gli amici, ma non lo trovarono e ritornarono a Gerusalemme. Per tre giorni lo cercarono nella folla, su e giù per la città. Allora andarono al tempio e lo trovarono là, seduto in mezzo ai dottori che lo ascoltavano e lo interrogavano. Egli parlava nella lingua dei contadini di Galilea, ma cio che diceva lo vedeva cosi chiaro davanti agli occhi, che la legge diventava nuova e viva nella sua voce, e quelli che l’udivano restavano sbigottiti del suo senno e delle sue risposte. Tuttavia i genitori, al vederlo fra i dotti, si turbarono assai, perchè egli era uno scolaro della campagna e loro, i savi di Gerusalemme, la cui voce era ascoltata nel gran consiglio, E Maria ristando timida innanzi ai vegliardi, lo rimproverò, ma i suoi occhi si posavano scintillando su di lui:

«Figlio, perchè ci hai fatto così? vedi, tuo padre e io ti abbiamo cercato con ansia.»

Ma egli era pieno dello Spirito, e disse loro:

«Perchè mi avete cercato? non sapevate che io devo essere nelle cose del Padre mio?»

Ma essi non lo compresero. Allora andò e tornò con loro a Nazareth, e fu loro sottomesso, ma la madre custodì in cuore tutto ciò che aveva veduto, e, spesso, mentre era intenta al suo lavoro, fissava lo sguardo in alto, pensosa.

E Gesù lavorava da falegname e imparava le scritture col maestro. Più bello pareva il sole di quell’estate, soave il vento, più rigogliosa la vegetazione dei campi, ed egli sentiva la sua solitudine canora della gioia che aveva ricevuto e nell’anima scorrergli la dolcezza dell’amore, dolce come il miele dei primi fiori. La stagione sfolgorava e scintillava di luci fluenti, là dove egli andava per l’aria calda di attesa, con gli occhi e le orecchie aperte alla vicina felicità, col volto soffuso dallo splendore della maturante giovinezza. Quelli che lo vedevano aprivano grandi occhi e traevano pieni respiri, perchè la soavità e il profumo, e la tenerezza e il calore del risveglio si spargevano all’intorno e facevano lieta la strada: dove egli passava. E Gesù cresceva e lavorava tacito, e cominciava a vedere nel mistero.

Più vasta splendeva la luce dei giorni, più ampie cadevano le ombre della sera innanzi al suo volto meravigliato, gli attimi non avevano più fine. I rumori che udiva, il battito dell’ala di un colombo o il mormorio del vento, la voce d’una madre che ninnava il suo bimbo o il sospiro della sua stessa bocca, destavano nel suo petto una grave risonanza; le cose che vedeva, un bue che passava giù nella valle o una figura lungo il muro della bottega, una luce nella notte o l’acqua della fontana, gli apparivano in uno splendore cosi violento ch’egli ne sentiva la vampa contro il viso. E tutto ciò che pei suoi pensieri era cupo e vago, nei suoi sogni esplodeva in una chiara meraviglia di liberata gioia. Il sonno lo lasciava in un sospiro; aveva in bocca la dolcezza del languore, e sapeva che la forza di quella gioia che ogni giorno più gli rinvigoriva il corpo e gli illuminava il profondo dell’anima, era una grazia ch’egli non aveva mai conosciuta.

Ma cercava di conoscerla e imparava che per ogni essere umano l’amore è una necessità e che esso sempre cresce in coloro che l’Eterno ha eletti.

Viaggiò con Giuseppe per le città della Galilea dove si costruivano edificii e là si fermarono per lavorare. In una di quelle città, un giorno tutto sole accadde che uno sguardo umano, vagante fuori della folla, gettò nella sua anima il raggio della conoscenza. Si fermò accecato. Ma la sua voce gridò da tenebre fiammeggianti, ed egli si svegliò alla bianca luce e il suo sguardo abbracciò il mondo nella sua eterna felicità. Da quel momento fu l’amante del mondo.

Guardava la bellezza del cielo apparire ogni mattino alta e pura come il primo giorno: il suo sguardo estasiato errava per colli e pianure sino all’orizzonte, su tutto ciò che era verde per la maturità della terra, su tutto ciò che era giallo pel fuoco del sole, sullo scintillio delle acque: tutta la terra raggiava soddisfatta innanzi a lui, lo penetrava di quiete. Guardava gli uccelli nella loro gioia: la tortora tubava soltanto nelle basse querce, l’airone si ergeva immobile sull’orlo delle pozzanghere, le quaglie volavano verso il mare a stormi garruli e festosi, e dall’alto stillava talora la canora soavità dell’allodola. E Gesù intendeva la felicità della terra, le sue piante e le sue bestie uscite dalle mani del Creatore; s’inginocchiava e baciava piangendo la sabbia, e innalzava sonora la voce.

Il cuore gli batteva leggero, la tepida aria gli carezzava il viso, e ritornando al villaggio, il suolo pareva scivolare sotto i suoi piedi. Alla fonte vi era col suo cavallo un soldato, uno schiavo del sovrano; come non rispose all’augurio di salute, Gesù si fermò e guardando lo stràniero negli occhi fu atterrito dalla tenebra che ne ricevette.

Ma quando lo interrogò, il soldato crollò la testa e parlò sospiroso nella sua lingua; Gesù camminò avanti lentamente.

E incontrò una donna che teneva gli occhi bassi; innanzi a lui li alzò e riconoscendolo sorrise, ma il sorriso disparve subito dalle sue labbra. E di nuovo egli si fermò, di nuovo interrogò, ed essa lo fissava. Nel nero di quegli occhi Gesù vide le nebbie dell’angoscia ma quando li scrutò più addentro, la donna ruppe in pianto e bisbigliando tra sè, si allontanò. Poi giungendo alle prime case della strada, udì dei gemiti come di uno che fosse sfinito dalle pene; innanzi alla porta non c’era nessuno. Entrò e trovò un vecchio ammalato sul suo giaciglio, con vicino una vecchia donna. Gesù s’inginocchiò accanto a lei, e la interrogò: la sua voce cantò nella casa, il malato tacque e chiuse gli occhi per ascoltare. Poi s’addormentò mentre quei giovani occhi contemplavano in lui tutta la tristezza della vecchiaia.

Quando entrò nella casa dei genitori, Maria s’alzò dal suo lavoro per salutarlo e vide il figlio tornare dal suo viaggio, olezzante come un fiore sbocciato nei campi, radioso e colmo di giovinezza, ma il calore della sua testa la domanda dello sguardo tradivano lacrime future. Fu Maria che distolse gli occhi da lui, e Gesù, varcata la soglia, giunse le mani nella preghiera che innalzano i ritornati a casa.

Da quel giorno la fiamma dentro di lui sali sempre più calda; egli guardò gli uomini con occhi sempre più chiari. Ma a lungo ancora nei suoi sogni si chinò verso la dolcezza di cui ai giovani cuori appare colmo il mondo, a lungo ancora cercò l’opulenza dei luoghi solitari, e la sua mente si apriva soltanto. a ciò che di grato ha la vita umana: tutto il resto egli lo guardava senza vederlo.

Se ne stava presso il banco per piallare, solitario nella sua felicità, desioso delle tenerezze che gli avrebbe rivelate la sera e il suo saluto e le sue risposte avevano una fluida sonorità, Dopo il tramonto s’incamminava su pei colli, attraverso campi e frutteti, dove vicini erano lo stormire delle foglie e i rumori degli animali notturni, e lontano lo strepito del villaggio; e nell’ombra cominciava il fervore, la vagante musica delle domande e lo scintillio della gioia che sorgeva; e non fiorivano più stelle in cielo che sguardi umani puri e teneri innanzi alla sua fantasia, e non brulicavano più misteri nel buio del fogliame e del pendìo che al suo orecchio non sussurrassero voci, non languissero sospiri dal seno onde nasce ogni anima. Le sue labbra scottavano, le sue braccia erano forti e vaste, il caldo vento ch’egli cingeva in un bacio portava pel mondo la rugiada della sua felicità. Volti umani, voci umane, figure umane, facevano felice la sua notte, ed egli sapeva che esse, figlie della gioia immortale, vivevano nel Creatore che le avrebbe generate a loro tempo.

Tuttavia il suo cuore era troppo giovane per cercare ristoro presso quelli che abitavano con lui nel Villaggio.

Roseo in volto lavorava a fianco di Giuseppe con martello e scalpello e sega: sedeva a tavola insieme coi fratellini e le sorelline; chiara s’alzava la sua voce nell’adunanza, ed egli non s’accorgeva che quelli di casa, i vicini e gli amici cercavano il suo viso nella lucente nebbia che lo avvolgeva, nella sua voce ascoltavano l’alba. E innanzi a quegli occhi affisati lontano, anche per loro il giorno splendeva meravigliosamente.

Passò così una estate di quiete, e una soave stagione di piogge e di canti festosi; poi, quando bisognò di nuovo fare il lavoro dei campi, ed egli camminò lungo i solchi spargendo la semente, sentì sbocciare il primo fiore del desiderio e s’accorse che le sue mani erano piene ma che non avevano donato. Le grida di uomini e donne nel campo vicino risonarono nel suo cuore. E dopo il lavoro andò da loro, innanzi alla porta della casa, e si sedette e li ascoltò parlare. Allora cominciò a conoscere la bontà della sorte dei mortali.

Un mattino fu svegliato dai lamenti della vicina ch’era nel parto, e a un tratto comprese che stava per accadere una meraviglia di umana gioia, perchè il lamento usciva profondo dal cuore della madre e quelli che l’udivano stavano quieti in un’attesa sgomenta. Usci piano e fermatosi contro il muro senti la soave carezza del giovane sole e l’aria sfavillare al suo sorriso – una donna che comparve sulla porta arrossì di felicità. La gioia balzò in lui così possente ch’egli chiuse gli occhi e osò soltanto mormorare il santo Nome. Ma quando udi una vocina dal buio interno della casa, si erse e andò diritto alla casa dell’adunanza, dove si mise il suo mantello e la sua cinghia e lodò l’Eterno per il nuovo figlio d’Israele. Egli era allora nell’età che agli adolescenti spunta la barba sulle guance. Nelle ore di riposo s’intratteneva con gli artigiani a parlare del loro lavoro, ascoltando attento e osservando i loro attrezzi; e quando se ne andava dopo aver augurata la benedizione di Dio, quegli che aveva ricevuto tale saluto, prima di rimettersi al lavoro s’indugiava con uno sguardo più dolce sul piccolo luogo delle sue quotidiane fatiche, e Gesù tornava con mani contente ai suoi attrezzi da falegname.

E vide la felicità della giovinezza. Un giorno, scendendo alla valle attraverso i frutteti, gli ulivi brillavano dei loro fiori argentei, le nuvole di primavera ornavano il cielo, la luce mattutina spargeva il suolo di piccole faville. E andando udì le note di una canzone suonate sopra uno zufolo, come quelli che i pastori tagliano da una canna per loro diletto, e, appressatosi al luògo dove s’ergevano dei fichi coi loro frutti di primavera, scorse un giovane e una fanciulla, compagni dall’infanzia, seduti l’uno di faccia all’altra. Ma essi non s’accorsero di lui, e Gesù prosegui avanti senza far rumore. Prima di oltrepassare gli alberi, voltò la testa e indugiò, e in un’ardente nascita gli apparve il miracolo che lega due anime in una. Uno sguardo che un giorno lo aveva penetrato sino al fondo, ora zampillò luminoso, ed egli volse verso i due i suoi occhi puri: vide la bellezza di quegli amanti, piena come un mandorlo fiorito, soave come una daina che riposa, pura come l’aurora. Un fresco respiro gli uscì dalle labbra, una benedizione non detta, un sospiro a Dio. S’allontanò dal luogo consacrato, sentendo nelle mani la bellezza umana, godendo in petto il sole del sangue, gustando in bocca il sale del desiderio. Guardò il cielo alto sopra la terra e il suo cuore diventò un albero pieno di cinguettii: cosi imparò la felicità dell’uomo e della donna.

Imparò anche la brevità degli umani giorni, prima che la sua anima cominciasse a cercare l’enigma dei dolori, e anche da quella conoscenza comprese la misericordia dell’Eterno. Fu verso la fine della sua adolescenza, quando tutto ciò che di umano egli scopriva, era luminoso e fresco come un fiore. Il sole appena brillava sui monti di Naphtali ed egli saliva incontro al colle che si alza sopra il villaggio; nel suo sguardo vagava la brama che cerca lontano. Giunto vicino a un ovile udì le pecore belare afflitte, perchè non le avevano ancora lasciate uscire a pascolare.

Entrò, cercò il pastore sotto il piccolo ricovero e lo trovò che giaceva al suolo, con gli occhi aperti. Quando si chinò su di lui, il morente mormorò che egli aveva pregato invocando qualcuno e che voleva andare da Colui dal quale era venuto, e Gesù vide che il vecchio si era preparato.

Il suo cuore si fece grande per il morente, gli prese la mano; allora il pastore volse gli occhi a lui e mormorò il suo nome.

E Gesù aspettò, guardandolo. All’intorno spiravano profumi, un rumore di canti fluiva dal colle soverchiando i belati delle pecore, finchè d’un tratto il vivo udì di esser solo, e non dubitò, benchè quella mano fosse calda nella sua e quegli occhi fissassero i suoi, benchè nessun soffio, nessun sospiro avesse lasciato quell’uomo che non era più un uomo, non dubitò benchè l’aria laggiù scintillasse di sole. E lacrime gli scesero dagli occhi, chè una sonora magnificenza scorreva sopra il suo essere, ed egli stava là e sapeva che quell’anima che poco prima aveva detto ricca d’amore il nome d’un altro, non aveva fine. E coperse il pastore con le coperte e pregò. Poi prese il bastone e aprì il chiuso, e le pecore corsero fuori accalcandosi intorno a lui; e quel mattino egli le custodi, perchè avevano bisogno di cibo e di guardia…

Note brevi a L’Uomo di Nazareth biografia

  • L'Uomo di Nazareth biografia Gesù: Arthur van Schendel
    Van Schendel in 1920

    Il testo fa parte del quinto capitolo della biografia De Mensch van Nazareth. Oltre a queste poche pagine tradotte da Giacomo Prampolini. Il libro non ebbe un’edizione italiana.

  • Il testo in nederlandse: Arthur van Schendel, Verzameld Werk. Volume I. Meulenhoff, Amsterdam, 1976, pp. 642-648. L’originale si può leggere qui.
  • Cf. inoltre di Arthur van Schendel la novella Chiaro di luna.