Segue dello scrittore Aart vander Leeuw Bellezza, un breve racconto pubblicato nel 1925. Van der Leeuw nacque nel 1876 nella cittadina Hof van Delft e muore nel 1931 a Voorburg. Non ha scritto moltissimo ma rimane valido il suo ultimo romanzo De kleine Rudolf (Il piccolo Rudolf). Fu pubblicato nel 1930.
Lo scrittore ammirava le opere e i personaggi del movimento letterario del fine Ottocento: gli Ottantisti. Conobbe inoltre il poeta Albert Verwey. Van der Leeuw pubblicò molto dei suoi scritti nella rivista letterario-culturale De Beweging (Il Movimento), diretto dallo stesso Verwey.
Bellezza
Un giorno dopo l’altro, l’impiegato dai capelli grigi trascorre le sue interminabili otto ore al muffito tavolo dell’ufficio, proprio come un malfattore sconta la sua pena in carcere. Il tavolo su cui stanno sparpagliate le sue scartoffie è sudicio e punteggiato di macchie d’inchiostro; contro le pareti a calce giallastra si elevano gli scaffali con gli schedari di cartone e sotto al rigido apparecchio telefonico troneggia ia macchina per copiare, minacciosa come uno strumento di tortura. Sono radunati lì dentro in sei: corvi famelici calati su un campo invernale dall’aspetto di morte; ogni tanto tossisce il vecchio contabile, che è asmatico, e scricchiolano le penne.
Ma l’impiegato dai capelli grigi sembra essere un po’ bizzarro. Quando dispiega gli atti ipotecari sui quali deve scrivere, si sofferma talvolta a fissare per qualche minuto la ceralacca rossa che suggella i documenti e sembra una goccia di sangue caduta sulla neve. E cerca anche di allisciare con tenerezza la cordicella di seta blu e verde che tiene insieme le pagine e poi rialza la testa e guarda attraverso i riquadri superiori delle finestre, giacché quelli soltanto sono trasparenti. Segue con gli occhi una nuvoletta viaggiante, che passa via ondeggiando come penna di cigno, oppure guarda come un airone si rechi nel suo territorio di caccia con placidi colpi d’ala.
Un solitario ramo di castagno si piega dondolando e slanciato si staglia nel cielo e l’impiegato ne conosce ogni fogliolina. In primavera egli osserva come si gonfino le gemme scintillanti e poi scoppino, come i fiori il pannocchia facciano sfoggio di pompa nuziale, e poi si dissecchino equino cadano per lasciar posto al frutto spinoso che matura e spaccandosi ma stra il prezioso seme di un caldo color bruno.
Quando sembra sprofondato nel suo lavoro, egli ogni tanto, in mezzo alle cifre, deve pensare alla fanciulla che nella strada triste ed angusta per la quale di solito passa gli è venuta incontro: aveva il collo nudo e camminava così agile e svelta come se il sole del mattino l’avesse invitata a danzare. E allora sorride, e le ore, di solito così dure e pesanti, gli sfuggono come sabbia calda di tra le dita.
Egli stesso non sa che è la bellezza che egli ama e nemmeno che essa è un bene degno di essere bramato, che si può cercarlo con le mani tese nel desiderio. Con semplicità accetta i suoi doni silenziosi, che non posseggono alcun altro valore se non quello di donare colore alle sue giornate grigie e monotone, come fa il rossore con guance pallide. E così non si rende affatto conto di essere divenuto, in una sua timida maniera, un paziente fratello di quei pii monaci dalla tonaca grigia che nelle nude celle stanno curvi su un libro oppure inginocchiati davanti alla croce, e con umiltà attendono lo splendore dorato della luce entro cui apparirà Dio.
Brevi note a Aart vander Leeuw Bellezza. Un racconto del 1925
Aart van der Leeuw, Vluchtige begroetingen. L’Aia: Nijgh & Van Ditmar, 1925, pp. 160-162. [Titolo ‘Saluti fugaci’]. Traduzione italiana del racconto qui sopra è di G. Antonelli.
Non risultano altre traduzioni in italiano. Una pagina wikipedia in inglese.
Questa pagina offre la prima parte del racconto di Jacobus van Looy La morte della mia gattina. Il titolo del mio post La morte della gattina ho omesso il pronome possessivo che si riferisce al pittore. È lui il protagonista ed è molto preoccupato dell’assenza da casa sua della gattina amatissima. Poi ella si ripresenta alla sua porta.
La morte della mia gattina
Oramai era via da tre giorni, quella vagabonda!
Dove poteva mai essere, dove, dove?
Come si sta bene, qui; che piacere dà la stufa; che bel calduccio c’è. Il calore se ne va allegro su per i tubi di ferro: è una gioia vederlo fremere. Agile descrive fantasie; sale fino alle basse travi, diventa un filo di fumo nell’alone dorato della lampada.
E così riempie la soffitta, mio dominio, con lente fantasticherie; così ridesta desideri di perpetuazione in uno stato di comodo benessere in cui ci si soffrega soddisfatti le mani; che cosa potrebbe mai farmi la grande morte che è là fuori, che cosa anche l’inverno con la sua tirannia gelida: non ha forse riempito la mia casa di fiori in un capriccio del suo supremo incanto?
Ma dove sarà…? Dove?
Che se ne stia sdraiata fra i tronchi degli alberi, fra i grossi tronchi del giardino qui accanto; oppure, morta perché caduta dall’alto di un albero, non starà a terra in mezzo ai rami secchi; giacerà là contratta in uno spasimo di morte, o affondata nel fogliame putrefatto? Morta, morta, insensibile al freddo e al tempo e sorda ai miei richiami…
Oppure giacerà distesa, appiattita sulla terra nuda, tra l’erba bianca; così piccola, un cosino da nulla, che nessuno riuscirà mai a trovare; morta stecchita ai venti gelidi, nel buco che uno zoccolo di cavallo scavò quando era ancora estate?
Uccisa…
O mia piccola, mia gattina d’oro, se sei davvero morta, se davvero devi scomparire così, io allora nel mio cuore ti edificherò una vera, immensa tomba, un mausoleo di linee di ghiaccio.
Per questo scopo tutto il cielo è mio, per quanto alto e freddo possa sembrare, da esso prenderò i fili di ghiaccio e ne tesserò un sudario finissimo per la tua piccolezza. Con i fiori della neve, con piume di brina e brillanti di ghiaccio io verrò a coprirti e ti distenderò nel mio palazzo dei morti.
Là vi sarà una volta di cristallino azzurro e là brilleranno stelle e fiammelle di ceri. ..
Che cos’è stato? No, questa volta non m’inganno. C’è stato un miagolio e veniva da vicino, da dietro la porta. Balzo in piedi, corro ad aprire l’uscio. Brr … che gelo! le pareti sono bianche e la porta che dà sulla strada è socchiusa. Rimasta aperta. Ma eccola là, sullo stuoino. O piccola, piccola mia, come sei piccola. Brr… che gelo. Lei non si alza. Ammicca con gli occhi verso la luce chiara che esce dal solaio. Stizzosamente e con una certa fretta la scavalco e le dò un colpettino con la punta della scarpa. Ah, dolcemente si muove, va dentro, magra, solo pelle e ossa… Cammina silenziosa, con piccoli movimenti degli ossicini delle spalle, proprio come fa un povero diavolo che stia spingendo davanti a sé un carretto carico. Brr… A balzelloni giù per le scale, chiudo la porta con fracasso, così che i vetri tintinnano nella notte gelida.
Di sopra, lei se ne sta là seduta in mezzo al pavimento, irrigidita dal gelo, orrenda alla luce, con le due zampine anteriori bloccate al terreno, vicine. Sta ritta proprio al margine dell’ombra della tela sul cavalletto.
Ma era quella la mia gattina; la mia piccola gattina? No, no, quella era una bestia estranea, una vecchia bestia, una bestia malridotta. Dove erano i suoi occhi giovani, i suoi occhi tondi da bambino? E dove la sua bella pelliccia dalle strisce lucenti? dove la sua coda frivola e dove mai lo stupendo velluto delle sue piccole orecchie? No, dannazione, quella era una bestia estranea. Non guardava nemmeno; aveva uno sguardo schivo; quelli erano gli occhi vacui di un uomo miserando, trapiantato in un ambiente estraneo. Era uno sguardo malato, non lo sguardo della mia bestiola… dannazione.
Miau ! … che grido lontano… Veniva ancora da fuori, dalla strada e io avevo già visto che all’interno il musetto non era più roseo, ma bianco azzurrognolo, bianco come la notte, come l’inverno, come la morte…
… Miauu ! … «Piantala, bestiaccia. Piantala, o ti caccio via …» Sto nella mia poltrona e ragiono: «Da dove vieni? Dove sei stata fino ad ora, eh? … Non hai fame? Sono tre giorni che là c’è carne e pane e latte; dove sei stata con questo freddo, brutta bestia. Vieni dunque qui. Sei gelata, là c’è la stufa. Non vuoi venire?»
Allora l’ho presa in braccio, l’ho stretta contro di me e me la sono adagiata sulle ginocchia. Non aveva quasi più peso. Non era più che un mucchietto freddo e rigido, con una testina miserevole ancor viva… la tenera piuma che aveva sotto il pancino era appiccicata e gelata a ciuffetti.
Come stava ferma, immobile; come era grande la notte e che gelo dappertutto…
Dolcemente andava la mia mano sulla pelliccia della mia bestiola e intanto un immenso dolore mi cresceva dentro e mi saliva fino agli occhi.
Il racconto originale ha tre paragrafi di cui qui sopra tradotto è il primo. Il gatto muore alla fine del racconto, non nel primo paragrafo e perciò il titolo non è corretto. La morte dell’amata gattina avviene per colpo del modello del pittore, un rozzo adolescente poco raccomandabile ma è economico. La storia uscì per la prima volta nel 1889.
Oltre a essere un pittore assai apprezzato Jacobus van Looy conquistò anche un posto tra i classici della letteratura nederlandese.
Note a La morte della gattina
Il testo presentato è stato tradotto da G. Antonelli e pubblicato nell’Antologia delle letterature del Belgio e Olanda. Milano: Fratelli Fabbri Editori, 1970, pp. 202-204.
Vedere la pagina wikipedia (it) dedicata a Jacobus van Looy.
L’opera di ter Braak ha un carattere essenzialmente critico. Non nel senso ristretto di critica letteraria, ma di critica totale verso ogni forma di vita e di pensiero. L’inizio del saggio Het Carnaval der Burgers, in italiano Carnevale dei borghesi (1930) introduce subito nel cuore del pensiero di questo autore. Autore sempre teso a smascherare le illusioni convenzionali allo scopo di riscoprire l’illusione nella sua freschezza di momento creativo. In un discorso filato e inesorabile egli traccia le linee essenziali che convergono nel paradosso della realtà, quelle di individuo e società, sempre separate, ma mai divise. Dalla monografia di Menno ter Braak Carnevale dei borghesi segue un frammento.
Un frammento
«Noi» siamo la vittima dell’« io » impotente; «noi» siamo la fredda pietrificazione e la calda illusione dell’« io », Per questo il credo di queste righe è nato tra la pietrificazione e l’illusione, nato come ripulsa del « noi » e come amore per il « noi ».
Il «Noi» è il vuoto, vuotissimo titolo di questo secolo: il pluralis maiestatis del giornalista che nessuno conosce e la cui opinione non è richiesta. Ma «noi» è anche la flotta di veloci e obbedienti panfili, che all’unisono si piegano sotto le stesse raffiche di vento. «Noi» è la paura del bimbo che di notte si sveglia ad un’ora insolita. È afferrato dal pensiero della morte: allora unico conforto è la presenza dei molti, degli altri. Sempre « noi », dopo la pace di Utrecht, abbiamo trascurato le nostre piazzeforti.
«Noi» danziamo, tutti, noi al carnevale, e «noi», noi tutti, abbiamo dopo la pesantezza di testa; e allora pensiamo «noi» che proprio con noi è arrivato o arriverà « l’uomo nuovo », «Noi» è il nostro primo ed ultimo gesto di tenerezza, e «noi» paghiamo le tasse.
Il «Noi» è il nostro carcere; «noi» ci perpetuiamo nei nostri figli; « noi» è la nostra libertà e il nostro andare verso l’orizzonte. « Noi»: insopportabile restrizione. E «Noi»: magica espansione. «Noi»: ognuno ha due braccia, due occhi, un sol naso, o infinita ripetizione. «Noi»: nessuno è privo di un anelito alla comunione dei santi.
Noi siamo borghesi. Noi vorremmo essere poeti. « Noi» è la formula la più generale e comune per la convivenza delle pecore. « Noi» è la più profonda e triste attesa per unirsi e fondersi. E «Noi» sono i confini inesorabili e l’opposizione contro tutti i confini.
Senza « noi» né frasi, né sonetti. Senza « noi» né guerre, né apostoli. Con «noi» esiste il mondo e per mezzo di «noi» esso continuerà a perire.
Vi sono notti di prima estate, in cui la pietrificazione del « noi» e l’illusione del « noi» sembrano concentrarsi ed annullarsi. Si erra solitari per i parchi delle grandi città e lungo le lontane sagome delle case si insinua ondeggiando un confuso canto di centinaia di radio, che resta sospeso tra i rami indolenti degli alberi attoniti, come aggrovigliata vegetazione di suoni. Ma le isole di verde e i freschi bacini degli stagni si oppongono ad ogni disturbo; la calda tenebra assorbe le note gracchianti delle stazioni trasmittenti.
I parchi vivono. Essi formano la sala da ballo del carnevale dei borghesi, che si festeggia qui con disinvolta allegria. L’oscurità è maschera e berretto a sonagli. Il grande fortino si muove e respira. Vi regna una legge che non si può eludere. Si desidera evitare la matematica degli uffici: uno più uno fa due con una somma incalcolabile: uno più uno fa uno. A coppie i borghesi entrano nel luogo della festa che già comincia a essere avvolto d’ombra, per immergersi nella notte, per poter far parte di un certo grado di follia.
Mani e braccia non sembrano più essere strumenti per scrivere, bensÌ soltanto prolungamenti di una forza cieca. Forza che alla luce del giorno si fa impacciata e timida, ma che invece risveglia degli eroi dopo il calar del sole. Nel cieco corteo verso la Coppia, all’improvviso è stato imprigionato un mondo che solo poche ore prima era immerso nell’elaborazione del bilancio annuale.
Lo stupido pensa che il sogno del « noi» sia a un tratto divenuto fine ben compreso, mistica meditata di tutta una massa, tanto sicuramente essi si dirigono tutti ai vialetti ove le panchine attendono. Con la regolarità della vita aziendale, i singoli remano verso il « noi». Ma si inteneriscono e non vedono più come accanto a loro e dietro a loro si stia compiendo lo stesso rito. I prati tremano sotto l’univocità del grido civilizzato dell’accoppiamento; ma gli individui si credono elevati e annullati nell’altro. In maniera appropriata, allo scopo, a greggi, essi vanno gioiosamente incontro all’annientamento di sé; e non si sentono per nulla toccati dal fatto di documentare tutti insieme una unica legge. Ogni impiegato si sente un dio trionfante, ogni dattilografa una ninfa affascinante.
Nelle chiare e profumate notti estive poetica è la fecondità della terra. Non si desidera altro che vivere, che ripetersi all’infinito. Il pensiero della morte è qui un’ombra irreale, anzi meglio: è un peccato. Per la vita panica, la morte non è vera; essa può anche afferrare, inaspettata – un amante uccide la sua amata per gelosia, sopraffatto da una impeto di collera violenta –, ma essa non è temuta. I borghesi non pensano a lei ed al Giudizio Universale, poiché essi ora sono davvero preda della morte e in attesa di giudizio. Essi cercano con passione sincera l’unico «noi», in cui confluiscono per loro pietrificazione e illusione. Essi cercano l’Altro.
Questo altro appartiene alla loro razza, cui appartengono milioni; è vestito come altri milioni vanno vestiti; linguaggio e gesti sono adattati alle convenzioni rassicuranti di migliaia di affini; non vi sono montagne da valicare per diventare «noi» insieme con quell’altro bipede. Anche l’altro è un pietrificato; è stato educato con determinati luoghi comuni mediante i quali ci si può comprendere a vicenda, sui quali si può avere intesa: c’è una base di elementare solidarietà… Ma ora si danza con quell’altro al carnevale; scomparso è il borghese, l’altro, anche lui. .. potrebbe essere un altro.
Non si sono visti mai occhi così profondi, mani così slanciate; si affida la propria sorte a quelle mani irrepetibili, si crede, in migliaia di luoghi allo stesso tempo nella notte estiva, ad un incontro predisposto; nessuno si veste cosÌ, nessuno parla così come l’altro, l’unico di migliaia, il caso della lotteria! L’illusione è arrivata e per incanto da uno qualsiasi ha creato l’unico.
Chiamalo un miracolo, chiamalo circolo vizioso. Chiamalo poesia della fecondità o fecondità della poesia… Poiché non appena dalle migliaia di altri l’unico e irrepetibile Altro è stato creato per illusione, allora l’illusione deve diventare possesso. E nella notte estiva le migliaia saltano addosso alla loro preda, per possedere l’illusione. Diventare « noi», uscire dai limiti, uno più uno fa uno: questo è il carnevale dei borghesi, con la sbornia e il mal di testa. Una volta, forse dopo una sola notte di carnevale, forse dopo anni, arriva la scoperta che non si può possedere l’illusione, senza l’amaro sapore del possesso. Il possesso è pietra…
Di nuovo il «noi» come pietrificazione ed il «noi» come illusione si evitano. Il carnevale è finito, il Giorno delle Ceneri si gettano le maschere. Esiste un mondo diverso da quello dei parchi estivi, ove il transeunte pare eterno, dove la mistica dei borghesi ha un certo passo. La Coppia è nata, è incontestabilmente presente, ha lasciato dietro di sé il momento dell’illusione. Si è chiuso il circolo vizioso: proprio nella pietrificazione è nata l’illusione e dall’illusione nacque la pietrificazione… Nei caffè si incontrano queste coppie pietrificate, una donna acida e velenosa, un tipo grasso e soddisfatto di sé, che seduti zitti e con aria assente a un tavolino, covano per ore intere peccati che non hanno coraggio di compiere.
Le strade sono piene di tipi come loro, ma nei parchi essi evitano i vialetti e le panchine. Da un tale annullamento nell’altro così trionfalmente accettato, nacque un odio, sia pure inespresso, per lo sporco inganno dell’illusione. «Noi» è diventato realtà, «noi» è diventato noia; l’altro, proprio quell’altro, si è logorato ormai da tempo diventando un altro, diventando un esemplare di migliaia di altri, che egualmente avrebbero potuto venir scelti. E perché non quelle migliaia di altri e perché invece proprio quella tal creatura cui si è restati attaccati?
E gli occhi dell’uomo errano verso la sorniona illusione creata dagli anni avanzati, mentre la donna va a caccia del favore dei figli. Illusione a tutti i costi… Ma il circolo vizioso è chiuso ormai da tempo e le gioie si fanno più vuote.
Ogni carnevale ha un Mercoledì delle Ceneri sempre più nero. Al carnevale, tempo di slancio e di cecità dinnanzi alla ripetizione, seguono monotone quaresime; carnevale e quaresima stanno in rapporto come illusione e pietrificazione.
Di Menno ter Braak è disponibile in italiano l’importante saggio Il nazionalsocialismo come dottrina del rancore. Sant’Oreste: Apeiron Editori, 2019. Cliccare qui.
Il testo riportato si trova nell’Antologia delle letterature del Belgio e dell’Olanda. Milano: Frattelli Fabbri Editori, pp. 325-328.
L’originale in: Menno ter Braak, Verzameld Werk. Amsterdam: G.A. van Oorschot, 1950, vol. I, pp. 11-14. Traduzione di G. Antonelli.
In questo post dal titolo ‘Albert Verwey Poeta Scrittore’ intendo fornire informazioni sui componimenti tradotti in italiano del celeberrimo poeta nederlandese. Nel mese di settembre 2020 è stato pubblicato una notevole raccolta delle sue poesie con il titolo Cara terra. Ma dobbiamo tornare molto indietro per le prime traduzioni: a quelle del 1927 ne seguiranno altre nel 1939 e poi nel 2015.
1927 Giacomo Prampolini
Nel suo fiorilegio La letteratura olandese e fiamminga del 1927 Prampolini rende accessibile ai lettori italiani del primo dopoguerra ventisette autori olandesi e fiamminghi. Prampolini propone tuttavia traduzioni in proza dei componimenti di Albert Verwey.
«Poesia a me giunge come un sogno». È il primo verso del componimento Una sera d’estate, che recita: De poëzie komt over me als een droom.
«Zoals een vroom man in een heidens land» È il primo verso del sonetto 43 del ciclo di traduzioni dei sonetti di Shakespeare. In nederlandese: Zoals een vroom man in een heidensch land.
«Cristo sulla croce. (Christus aan het kruis).» In questo caso Prampolini ha tradotto il titolo del componimento e aggiunge anche il titolo originale.
«Fa’ ora riposare la tua anima che piange…» È il primo verso del sonetto 20 del ciclo di traduzioni shakespeariane. In nederlandese: Leg nu uw ziel, dat moede kind, ter rust.
«Ciò che un cantore disse ad un re. (Wat een zanger tot een koning zei)». Come in numero 3.
«Il mondo (De wereld)». Come in numero 3.
«Di raggi e lacrime (Van straal en traan)». Come in numero 3.
Pubblicare in quell’epoca una simile raccolta fu davvero un atto coraggioso.
1945 Massimo Spiritini
Nel 1939 fu pubblicato il fiorilegio Poeti del mondo a cura di Massimo Spiritini. (Vedi copertina.) Ho potuto consultare la seconda edizione che uscì nel mese di aprile 1945. Le poesie di Verwey si trovano alle pagine 217-218 e sono ambedue tradotte dal curatore.
Cristo sulla croce – Christus aan het kruis
Come un devoto – Zoals een vroom man in een heidensch land
Le poesie erano già proposte da Prampolini: sono i numeri 3 e 2.
2012 Giorgio Faggin
Nel 2012 Faggin pubblicò nella rivista letteraria milanese Hebenon un’ampia raccolta di poesie di Verwey, ponendo fine al silenzio che durò quasi tre quarti di secolo. Ecco i dodici componimenti tradotti da Faggin:
Terra – Aarde
Mare del Nord – De Noordzee
Mattino – Morgen
Helaas, elk tijdelijk…
Orbita – Cirkelloop
La misura – De maat
Pensa che bella… – Bedenk hoe schoon
Il mare. I corpi snelli… – De zee. De slankheid
L’albero -De boom
Il canto che sussurra -Het lied dat fluistert
Per la morte di una bimba – Bij de dood van een kind
Mattino – Morgen
Le poesie Mattino numero 3 e numero 12 sono diverse. Lo studioso e neerlandista Marco Prandoni introduce la raccolta con un ottimo testo in cui colloca il poeta nel suo contesto storico-letterario.
2015 Giorgio Faggin
Faggin pubblicò nel 2015 il florilegio bilingua Gli Ottantisti (Tachtigers) nel quale propone traduzioni di componimenti di Willem Kloos, Frederik van Eeden, Albert Verwey, Herman Gorter, Hélène Swart, Jan H. Leopold, Henriëtte Roland Holst e Pieter C. Boutens. Di Albert Verwey include sei componimenti:
Mijn god is enkel gloed – Iddio è puro fuoco
De maat – La misura
Sta op mijn lief – Scendi dal letto
Bedenk hoe schoon – Pensi che bella,
Het lied dat fluistert – Il canto che sussurra,
Morgen – Mattino.
I numeri 1 a 4 sono sonnetti mentre i numeri 5 e 6 hanno ciascuno quattro strofe di quattro versi. L’edizione bilingua riporta in cursivo il testo nederlandese stampato come consueto a sinistra.
2020 Giorgio Faggin
La raccolta Cara terra curata da Giorgio Faggin è uscita nel mese di settembre 2020 presso la casa editrice Joker edizioni. Il curatore ripropone le poesie del 2012 e 2015 e ne aggiunge venti inediti. Si tratta di un’edizione bilingua molto curata e corredata da una postfazione, una bibliografi e riferimenti precisi alle fonti. L’edizione propone una scelta di poesie provenienti da quindici raccolte di Verwey, presentate in ordine cronologico. La scelta rappresentativa riguarda l’intera carriera poetica del Verwey.
Cito dall’Enciclopedia Treccani, 1937, la voce Albert Verwey di J. L. Walch, che fornisce sì informazioni bibliografiche, tuttavia non fa alcun cenno alla selezione di Prampolini del 1927:
Poeta, critico e storico della letteratura olandese, nato ad Amsterdam nel 1865. Giovanissimo, si trovò già in mezzo al movimento letterario; nel 1885 fu uno dei fondatori della nota rassegna De nieuwe gids, che doveva avere un’importanza così grande nel rinnovamento della letteratura olandese, alla fine del sec. XIX. Nel 1894 fondò insieme con Van Deyssel la Tweemaandelijksch Tijdschrift, che si chiamò in seguito De XXste eeuw; e nel 1905 fondò De Beweging che durò fino al 1920. Nel 1924 fu nominato professore all’università di Leiden, cattedra che abbandonò nel 1935 per motivi di età.
I principali studî letterarî dei primi tempi della sua attività sono raccolti nei volumi Stille Toernooien (1901) e Luide Toernooien (1902). Gli studî che hanno veduto la luce in De Beweging sono usciti in una decina di volumi intitolati Proza (1925). Fra i suoi lavori letterarî meritano inoltre di essere citati: Het leven van Potgieter (1903); Potgieters Testament (1908); Hendrick Laurenszoon Spieghel (1919) e Vondels Vers (1927). Tra le raccolte di poesie del suo periodo giovanile si possono menzionare: Persephone en andere gedichten (1885); Van het leven (1888); Aarde (1896). Seguirono: Dagen en daden (1901), Uit de lage Landen bij de zee (1904); Goden en Grenzen (1920). Nel 1923 pubblicò una notevole traduzione della Divina Commedia.