Il seguente testo di Harry Mulisch Elogio della terra di nessuno risale al 1988. È il testo della conferenza che lo scrittore tenne il 25 maggio 1988 a Berlino durante il convegno ‘Ein Traum von Europa’. Ho trovato la traduzione nella rivista trimestrale Lettera internazionale. (Vedere in calce i dettagli bibliografici.)
I
I miei bisnonni paterni erano originari dalla Sassonia e della Baviera. Mio nonno nacque a Graslitz, oggi Kraslice, Cecoslovacchia; mia nonna a Erfurt. Si sposarono a Praga. Mio padre nacque a Gablonz, oggi Jablonec, Cecoslovacchia. Crebbe a Bielitz, oggi Bielsko, Polonia. Studiò a Vienna. Come ufficiale di mestiere austro-ungarico nella prima guerra mondiale sparò a est sui russi, a sud sugli italiani, e a ovest su francesi, inglesi, americani e tutto ciò che si muoveva da quelle parti.
Ad Anversa l’arianissimo ufficiale di artiglieria conobbe la figlia di dieci anni di una famiglia ebrea presso la quale era alloggiato. Questa ragazzina, nove anni dopo mia madre, era nata ad Anversa, senza però essere belga. Sua nonna paterna veniva da Zala Egerczeg, oggi Ungheria; suo padre, dunque mio nonno, da Vienna. Ad Anversa quest’ultimo aveva sposato mia nonna che era nata a Francoforte sul Meno. Dopo la guerra la famiglia fu costretta a scappare dal Belgio, e si stabilì ad Amsterdam. Mio padre tornò a Vienna, dove improvvisamente si ritrovò ad avere la nazionalità cecoslovacca. Sua sorella maggiore sposò un polacco e si stabilì a Cracovia, la minore sposò un ceco e si trasferì a Brno, dove mia nipote vive tutt’oggi. Mio nonno nel frattempo era morto, e mio padre, quando morì anche sua madre a Wiesbaden, emigrò in Olanda. Lì fece stampare il suo annuncio di fidanzamento in francese, quello di matrimonio in tedesco, e poi nacqui io, ad Haarlem, come bambino ceco.
Poco dopo mio nonno materno si separò dalla moglie e si trasferì a Parigi, dove sposò in seconde nozze una francese ed ebbe una bambina. Non ho mai conosciuto questa nuova nonna. Dieci anni dopo si separarono anche i miei genitori; mia madre andò ad Amsterdam. Suo fratello fece appena in tempo a emigrare in America; sposò un’americana e oggi vive a Miami. All’inizio della seconda guerra mondiale il figlio di mia zia polacca, del quale porto il nome, allora ufficiale, fu ammazzato dai russi vicino a Katyn. Un paio di anni più tardi mia nonna e la mia bisnonna materna furono uccise dai tedeschi a Sobibor. Mio nonno materno sopravvisse alla guerra a Vichy, Francia, e morì in seguito a Parigi.
Dopo la guerra mia madre emigrò negli Stati Uniti, diventò americana e festeggiò a San Francisco il suo ottantesimo compleanno. Mio padre è morto da più di trent’anni, ad Haarlem, al suo sessantacinquesimo compleanno: disciplinato come sempre.
II
Bene, qual è a questo punto la mia patria? Mia madre intanto è al suo quinto passaporto: prima quello austro-ungarico, dopo la prima guerra mondiale il passaporto dei senza terra, dopo il suo matrimonio con mio padre quello ceco, dopo la sua naturalizzazione in Olanda (che mi rese ufficialmente olandese) quello olandese e adesso quello americano. Io sono nato in Olanda e tutt’oggi vivo lì. Ma l’Olanda è nata in me?
Mi sento legato al luogo delle mie origini: ad Haarlem, la mia città paterna, i boschi e le dune dei dintorni, e ad Amsterdam, la mia città madre, dove vivo da trent’anni. I miei migliori amici sono olandesi, e amo la libertà olandese, odio però l’iconoclastia calvinista. Anche se nella mia infanzia ho presumibilmente sentito parlare più tedesco che olandese, con l’intervento della storia mondiale l’olandese diventò la mia lingua. Però non si può dire lo stesso della storia olandese, e tantomeno della storia della letteratura olandese. Non mi sono mai considerato semplicemente uno scrittore olandese, ma sempre uno scrittore europeo che scrive in olandese. La mia vita è olandese; ma nella storia, di cui io sono il prodotto, non c’è nulla di olandese.
Non potrei mai pronunciare una frase come: «Nel sedicesimo secolo ci sollevammo contro il dominio spagnolo». Fu una rivolta brillante (che tra l’altro non giovò molto all’unità d’Europa), ma io non appartengo in nessun modo a questo «noi», come i miei conterranei autoctoni. Al contrario: mio padre portava ancora la divisa degli Asburgo e nel sedicesimo secolo «noi» eravamo in parte nella lontana Boemia e in parte probabilmente ancora più lontano, in vari ghetti della Galizia. «Noi», nel sedicesimo secolo, al massimo tenemmo i Turchi lontani da Vienna. Ho sempre presente la storia della mia famiglia e anche le terre dove si è svolta. Ma naturalmente non posso pronunciare senza ironia nemmeno una frase come: «Nel quindicesimo secolo ereditammo i Paesi Bassi».
Inoltre non è necessario appartenere al «noi» di un paese per giocarvi un ruolo. La stessa rivolta contro Filippo II fu condotta da un principe tedesco, Guglielmo d’Orange, che inizialmente era stato anche al servizio degli Asburgo e la cui famiglia aveva ben poco a che spartire con un «noi» olandese. Ma a partire da allora i Paesi Bassi sono legati a quella famiglia, da allora la storia olandese si identifica in gran parte con quella di questa famiglia, sebbene fino ad oggi la discendenza diretta non si sia ancora imparentata, tramite matrimonio, con nessun olandese. A questo riguardo, io, con i Paesi Bassi, ho a che fare né più né meno (allo stesso tempo di più e di meno) di questa famiglia.
Perché mentre io, da una parte, sono il primo a essere nato in questa terra, dall’altra la madre dei miei figli è un vero membro di questo «noi»: la sua famiglia si può senza dubbio far risalire ai Batavi. Del resto, come possessore di un passaporto olandese, da un certo punto di vista mi sento legato più alla fantastica corte praghese di Rodolfo II d’Asburgo, Sacro Imperatore Romano, re di Boemia e Ungheria (dove tra l’altro molti olandesi avevano un ruolo importante) che a quella degli Orange in un monastero a Delft. Per scrittori come Nabokov, Beckett, Ionesco, Canetti, che hanno cambiato paese e lingua, la situazione è forse ancora più problematica. E, a parte questi pochi colleghi, ci sono in Europa innumerevoli altri emigrati per i quali vale la stessa cosa.
III
In breve: solo l’Europa come insieme può essere la mia patria. Tutte le guerre le considero guerre civili. Non posso immaginarmi altra patria che l’Europa. Ed è questo che le persone come me hanno in comune con i membri di quelle famiglie reali internazionali che riuscirono a conservare per secoli le divisioni tra i popoli da loro dominati quasi senza appartenere a nessuno di essi. Il loro «noi» non era mai legato a dei luoghi. I proletari di tutto il mondo non riuscirono mai a unirsi, ma i monarchi di tutto il mondo in quel senso non furono mai divisi.
Certamente, quando le loro discordie familiari lo richiedevano, lasciavano che i loro proletari si massacrassero a vicenda; e quelle anime compassionevoli vi si prestavano, senza rendersi conto che gli stessi simboli regali del loro orgoglio nazionale erano dei provati cosmopoliti. Nei loro scambi epistolari lo zar di tutti i Russi, l’imperatore tedesco e il re d’Inghilterra esordivano sempre con «caro nipote»; «carissima mamma» scriveva la regina di Francia all’Imperatrice d’Austria.
Perché gli europei non potrebbero imitare la pratica che queste superfamiglie reali e imperiali esercitavano sotto i loro occhi? Le tante lingue non sono necessariamente un ostacolo. In moltissimi paesi dell’America Latina si parla la stessa lingua; e tuttavia non costituiscono un’unità politica. L’Unione Sovietica, al contrario, è un’unità politica in cui si parlano centocinquanta lingue, tra cui una è dominante. In Svizzera si parlano quattro lingue, senza che nessuna di esse possa essere considerata «lo svizzero». Ci sono dunque diverse possibilità, e già adesso l’Europa occidentale si avvicina al modello sovietico, rivestendo l’inglese lo stesso se ruolo del russo. Certamente si arriverà a formare una famiglia europea occidentale per una qualche via federativa; le frontiere sono già quasi scomparse.
Ci fu un tempo in cui le tribù si facevano la guerra; poi ci fu al un tempo in cui la guerra si combatteva tra le regioni, e dopo furono gli stati a combattersi. Francia e Germania hanno combattuto guerre terribili: attualmente il pensiero di una guerra tra i due paesi è altrettanto ridicolo quanto una guerra tra Sparta e Atene. Dunque un progresso c’è. Entità come la Repubblica Federale Tedesca, l’Inghilterra, i Paesi Bassi, l’Austria o l’Italia cominciano ad assumere lo stesso status pittoresco della Prussia, Sassonia, Assia, Baviera e di tutte quelle altre regioni. Alla fine del ventesimo secolo il nazionalismo si trasforma, grazie a Dio, in provincialismo.
IV
Tuttavia non ci sono solo tanti paesi, ma, al di là di essi, ci sono anche i due blocchi – come nel sedicesimo secolo quello cattolico e quello protestante. Ci sono anche entità come la Repubblica Democratica Tedesca, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Jugoslavia, la Romania. Qui comincia il problema vero – e a Berlino troviamo la sua sede filosofica. Perché naturalmente non è di piccola Europa che si tratta, se mi si permette questo termine, ma di grande Europa. E questo sarebbe il sogno. L’esistenza di questi due blocchi è una creazione involontaria di Adolf Hitler; e in quest’ottica possiamo vedere nel muro che divide questi due blocchi il suo monumento funebre. Con sufficiente sensatezza passa esattamente sopra il luogo dove questo essere infine si tolse la vita. Il muro è il problema diventato pietra, ma contemporaneamente contiene l’unica soluzione pensabile.
Esso possiede infatti una certa ampiezza, una determinata forza. L’ambito del sistema orientale, col suo centro di potere a Mosca, finisce alla facciata orientale del muro; l’ambito del sistema occidentale, col suo centro di potere a Washington, finisce alla facciata occidentale. Su di essa gli occidentali possono ad esempio scrivere le loro imprecazioni senza che gli orientali glielo impediscano. Ma qual è lo status dello spazio occupato dal muro stesso? Rappresenta il confine tra Mosca e Washington, ma come confine non è sottoposto né a Mosca né a Washington.
Le aspettative di noi europei sono quindi fuori questione. Non dovremmo abbattere il muro, ma al contrario, estenderlo. Dobbiamo insinuarci nel muro da entrambe le parti e scavare il cemento. Dopo dobbiamo, astutamente, senza dare nell’occhio e cautamente, passo dopo passo, ma con ferma decisione, allargare sempre di più il muro: spingere più ad occidente il versante occidentale, fino all’Oceano Atlantico, e quello orientale fino al confine con l’Unione Sovietica. A quel punto siamo arrivati dove vogliamo, perché allora la grande Europa stessa è diventata il muro tra le superpotenze, senza dover appartenere a nessuna di esse.
Sui suoi fianchi allora potranno scrivere, in americano e in russo, quello che vogliono. E, se si comportano bene e il loro scetticismo sarà diventato più grande del loro antagonismo, nel corso del tempo potranno addirittura inserirsi nella nostra società – perché noi naturalmente non dimenticheremo mai che è a loro due che dobbiamo la nostra comune liberazione dal fascismo.
V
Dopo le guerre fra tribù, le guerre regionali e le guerre tra gli stati, per anni sembrò che dovesse seguire anche una guerra tra i continenti – come equivalente moderno dalla devastante trentennale guerra di religione. Da Gorbačëv ciò è diventato improbabile, anche se non tutti possono abituarsi tanto rapidamente all’idea di un’ecumene politica. Partiamo dal presupposto che l’incubo, la fusione radioattiva dell’Europa, sia finito per sempre. Ciò significa che l’unificazione politica dell’Europa nel frattempo è già in ritardo e ci si deve sbrigare, prima che si annunci l’ultimo, onnicomprensivo problema mondiale. Perché naturalmente anche la grande Europa non è la meta finale, nemmeno l’unificazione del primo e del secondo mondo lo è: sono solo passi in direzione del grande sogno: una repubblica mondiale federativa, cioè il regno della pace perpetua. Lo sguardo deve rivolgersi sempre a questa lega di stati planetaria.
Nella premessa al suo progetto filosofico Per la pace perpetua Immanuel Kant racconta che quella era la scritta satirica di un’insegna di una locanda olandese, su cui era disegnato un cimitero. Non specifica se questo messaggio fosse rivolto agli uomini in generale, a bellicosi capi di stato o a quei filosofi «che sognano quel dolce sogno». Questo sogno per lui «non era un’idea vuota, bensì un compito, che, se perseguito costantemente, alla lunga si avvicina sicuramente al suo obiettivo (perché si spera che i tempi in cui si hanno uguali progressi diventino sempre più brevi)».
È dunque per un tale passo che noi lavoriamo. E Kant fa anche una raccomandazione: «Le massime dei filosofi sulle condizioni di realizzabilità della pace civile dovrebbero essere consultate dagli stati armati per la guerra». Egli chiama questo un «articolo segreto», perché, così dice, l’autorità statale considererebbe un’offesa alla sua dignità consultare pubblicamente i suoi sudditi sulle linee direttive della sua politica estera.
Dobbiamo dunque – richiamandoci al saggio di Königsberg, oggi Kaliningrad – redigere incessantemente petizioni, anche se non richieste.
Note a Mulisch Elogio della terra di nessuno.
- Harry Mulisch, “Elogio della terra di nessuno”. In Lettera internazionale. Rivista trimestrale europea. N° 18. Milano, Edizioni Caposile, 1988, p. 3-4. Traduzione italiana di Daniela Gay e Daniele Rzewski. Non si dice da quale lingua sia stato tradotto il testo, ma probabilmente dal tedesco. Le conferenze furono pubblicate nell’autunno del 1988 a Berlino: Hans Christoph Buch (a cura di), “Ein Traum von Europa”. In: Literaturmagazin 22. Berlin: Rowohlt Verlag, 1988. La conferenza di Mulisch fu pubblicato in nederlandese nel 1988 con il titolo: Lof van het niemandsland. Nel 1991 uscì una traduzione inglese: vedere qui.
- Di Harry Mulisch si può leggere inoltre il frammento tradotto, l’unico a quanto pare, dal romanzo Il talamo di pietra.
- Sul Muro di Berlino e la sua caduta la pagina wikipedia.