Questa pagina offre la prima parte del racconto di Jacobus van Looy La morte della mia gattina. Il titolo del mio post La morte della gattina ho omesso il pronome possessivo che si riferisce al pittore. È lui il protagonista ed è molto preoccupato dell’assenza da casa sua della gattina amatissima. Poi ella si ripresenta alla sua porta.
Oramai era via da tre giorni, quella vagabonda!
Dove poteva mai essere, dove, dove?
Come si sta bene, qui; che piacere dà la stufa; che bel calduccio c’è. Il calore se ne va allegro su per i tubi di ferro: è una gioia vederlo fremere. Agile descrive fantasie; sale fino alle basse travi, diventa un filo di fumo nell’alone dorato della lampada.
E così riempie la soffitta, mio dominio, con lente fantasticherie; così ridesta desideri di perpetuazione in uno stato di comodo benessere in cui ci si soffrega soddisfatti le mani; che cosa potrebbe mai farmi la grande morte che è là fuori, che cosa anche l’inverno con la sua tirannia gelida: non ha forse riempito la mia casa di fiori in un capriccio del suo supremo incanto?
Ma dove sarà…? Dove?
Che se ne stia sdraiata fra i tronchi degli alberi, fra i grossi tronchi del giardino qui accanto; oppure, morta perché caduta dall’alto di un albero, non starà a terra in mezzo ai rami secchi; giacerà là contratta in uno spasimo di morte, o affondata nel fogliame putrefatto? Morta, morta, insensibile al freddo e al tempo e sorda ai miei richiami…
Oppure giacerà distesa, appiattita sulla terra nuda, tra l’erba bianca; così piccola, un cosino da nulla, che nessuno riuscirà mai a trovare; morta stecchita ai venti gelidi, nel buco che uno zoccolo di cavallo scavò quando era ancora estate?
Uccisa…
O mia piccola, mia gattina d’oro, se sei davvero morta, se davvero devi scomparire così, io allora nel mio cuore ti edificherò una vera, immensa tomba, un mausoleo di linee di ghiaccio.
Per questo scopo tutto il cielo è mio, per quanto alto e freddo possa sembrare, da esso prenderò i fili di ghiaccio e ne tesserò un sudario finissimo per la tua piccolezza. Con i fiori della neve, con piume di brina e brillanti di ghiaccio io verrò a coprirti e ti distenderò nel mio palazzo dei morti.
Là vi sarà una volta di cristallino azzurro e là brilleranno stelle e fiammelle di ceri. ..
Che cos’è stato? No, questa volta non m’inganno. C’è stato un miagolio e veniva da vicino, da dietro la porta. Balzo in piedi, corro ad aprire l’uscio. Brr … che gelo! le pareti sono bianche e la porta che dà sulla strada è socchiusa. Rimasta aperta. Ma eccola là, sullo stuoino. O piccola, piccola mia, come sei piccola. Brr… che gelo. Lei non si alza. Ammicca con gli occhi verso la luce chiara che esce dal solaio. Stizzosamente e con una certa fretta la scavalco e le dò un colpettino con la punta della scarpa. Ah, dolcemente si muove, va dentro, magra, solo pelle e ossa… Cammina silenziosa, con piccoli movimenti degli ossicini delle spalle, proprio come fa un povero diavolo che stia spingendo davanti a sé un carretto carico. Brr… A balzelloni giù per le scale, chiudo la porta con fracasso, così che i vetri tintinnano nella notte gelida.
Di sopra, lei se ne sta là seduta in mezzo al pavimento, irrigidita dal gelo, orrenda alla luce, con le due zampine anteriori bloccate al terreno, vicine. Sta ritta proprio al margine dell’ombra della tela sul cavalletto.
Ma era quella la mia gattina; la mia piccola gattina? No, no, quella era una bestia estranea, una vecchia bestia, una bestia malridotta. Dove erano i suoi occhi giovani, i suoi occhi tondi da bambino? E dove la sua bella pelliccia dalle strisce lucenti? dove la sua coda frivola e dove mai lo stupendo velluto delle sue piccole orecchie? No, dannazione, quella era una bestia estranea. Non guardava nemmeno; aveva uno sguardo schivo; quelli erano gli occhi vacui di un uomo miserando, trapiantato in un ambiente estraneo. Era uno sguardo malato, non lo sguardo della mia bestiola… dannazione.
Miau ! … che grido lontano… Veniva ancora da fuori, dalla strada e io avevo già visto che all’interno il musetto non era più roseo, ma bianco azzurrognolo, bianco come la notte, come l’inverno, come la morte…
… Miauu ! … «Piantala, bestiaccia. Piantala, o ti caccio via …» Sto nella mia poltrona e ragiono: «Da dove vieni? Dove sei stata fino ad ora, eh? … Non hai fame? Sono tre giorni che là c’è carne e pane e latte; dove sei stata con questo freddo, brutta bestia. Vieni dunque qui. Sei gelata, là c’è la stufa. Non vuoi venire?»
Allora l’ho presa in braccio, l’ho stretta contro di me e me la sono adagiata sulle ginocchia. Non aveva quasi più peso. Non era più che un mucchietto freddo e rigido, con una testina miserevole ancor viva… la tenera piuma che aveva sotto il pancino era appiccicata e gelata a ciuffetti.
Come stava ferma, immobile; come era grande la notte e che gelo dappertutto…
Dolcemente andava la mia mano sulla pelliccia della mia bestiola e intanto un immenso dolore mi cresceva dentro e mi saliva fino agli occhi.
Commento
Il racconto originale ha tre paragrafi di cui qui sopra tradotto è il primo. Il gatto muore alla fine del racconto, non nel primo paragrafo e perciò il titolo non è corretto. La morte dell’amata gattina avviene per colpo del modello del pittore, un rozzo adolescente poco raccomandabile ma è economico. La storia uscì per la prima volta nel 1889.
Oltre a essere un pittore assai apprezzato Jacobus van Looy conquistò anche un posto tra i classici della letteratura nederlandese.
Note a La morte della gattina
- Il testo presentato è stato tradotto da G. Antonelli e pubblicato nell’Antologia delle letterature del Belgio e Olanda. Milano: Fratelli Fabbri Editori, 1970, pp. 202-204.
- Vedere la pagina wikipedia (it) dedicata a Jacobus van Looy.